Monte Honaz, Turchia. Estate 1147
Il guerriero menava fendenti con la forza della disperazione. La sua spada era imbrattata col sangue dei nemici che si pigiavano contro di lui e i suoi venti fanti ma Everard des Barres, grande maestro dei templari, non temeva la morte e neppure quell’orda di soldati turchi. Ora un affondo che scardinava la cotta di un nemico, ora una percossa all’elmo di un altro data col pesante pomello della sua spada e quelli cadevano come mosche. Ma tanti crollavano a terra altrettanti sbucavano alle loro spalle, con quelle maledette scimitarre affilate. Inoltre le fila degli arcieri si stava ricomponendo dopo il primo assalto.
Uno alla volta vide i suoi amici soccombere all’esercito turco, numericamente superiore di uno a venti. Poi alzò gli occhi, con un fischio sordo il nugolo di dardi appuntiti oscurò il cielo cadendo come una pioggia mortale su di lui e sui soldati rimasti ancora in vita.
Attese, chiudendo gli occhi, il buio della morte, conscio che una volta tornata la luce della vita il Redentore avrebbe premiato il suo gesto con l’ingresso nel Paradiso, dove avrebbe ritrovato le anime coraggiose dei suoi compagni morti in battaglia
Li riaprì dopo un lasso di tempo indefinito ma non trovò la luce che rigenera o le acque sacre e neppure le essenze dei suoi compagni. Con gli occhi del sogno la vide, immersa in qualcosa che non era buio ma neppure luce, e che comunque rendeva del tutto indistinguibili i contorni, ammesso che qualche cosa fosse presente in quel nulla assoluto. Niente di umano: sensi, intuizione, fantasia sarebbe riuscito a comprendere quello che lo circondava, solo il sogno ne era capace: quel mondo dove il nostro mondo non esiste, dove ciò che è non è come s’intende; quando si spalancano i cancelli della morte!
Un alveare; a Everard parve di vedere quegli strani favi che a volte pendono come un frutto maturo, quasi marcescente, dai rami degli alberi infestati che li ospitano loro malgrado e che coinvolgono un brulichio di vita indotta, dove ognuno degli insetti che lo compongono è nato per uno scopo e lo persegue fino allo sfinimento, finché la vita consumata nell’adorazione e nell’azione di accrescere l’apiario diviene degna di essere vissuta e lodevole per aver portato a compimento un compito ancestrale, primigenio. Inconsapevolmente pregnante.
Il Male in quel niente di luce e buio mischiati era presente allo stato più puro, incorrotto dalle pretese dell’uomo, inviolato dalla pochezza degli animi che ne sorbiscono il nutrimento come un vitello affamato fa con la madre e che, nel suggerlo per propria sussistenza lo rovina, ne smarrisce la parte più genuina. Lo stomaco del soldato s’intirizzì dal dolore e gli occhi si socchiusero assorbendo un disgusto mai provato prima.
Everard si accorse, guardando da un’altra angolazione quell’immenso ammasso di materia vibrante del lavoro di migliaia di operaie, che anche un senso di beatitudine caldo e amorevole aveva incominciato ad avvolgere la sua essenza, scacciando il Male. Era il Bene, nel senso più profondo del termine; e le gote si riempirono di calde lacrime di gioia mentre l’animo si elevava dalle brutture che egli, nei suoi anni di vita, aveva dovuto subire.
L’estasi della sua anima si era fatta densa e allo stesso modo, ma completamente diverso dal Male assoluto, anche il Bene profondo gli sconvolse lo stomaco.
Poi lui stesso divenne parte del Sogno e, come per incanto l’ammasso diventò una cosa vivida e chiara, e la consapevolezza di quello che era davanti a lui costrinse Everard a un moto di indicibile ribrezzo.
Un’infinità di setti cremisi più duri sporgevano all’infuori del corpo della cosa, circondando cavità di quella che pareva morbida carne, ma con un colore fetido di morte che cambiava continuamente tono, passando da un esangue grigio a un verde putrido attraverso l’azzurro che porta la decomposizione dei tessuti. Il mostruoso essere era reso ancora più orribile dal fatto che, a ognuna di questa aperture corrispondeva un grande occhio. Migliaia di bulbi come quelli umani si muovevano frenetici nelle enormi orbite e fissavano il vuoto intorno a loro, alternandosi l’uno all’altro con misurata lentezza e costante precisione.
Sul resto del corpo molliccio si aprivano e richiudevano fessure che, come bocche consentivano ai servitori di entrare e uscire per compiere al suo interno chissà quale compito.
Everard si concentrò su quella brulicante moltitudine, arrivando a riconoscere due specie diverse. Esattamente come nelle arnie che l’uomo coltiva per il miele e la cera, anche in quell’assurda entità si spostavano due tipi diversi di servitori: i soldati, lenti nei movimenti, guardinghi giravano ognuno intorno all’occhio che aveva in custodia, mentre le frenetiche operaie svolgevano il loro lavoro con straordinaria applicazione.
I primi avevano l’aspetto di un enorme scarafaggio nero con l’esoscheletro costituito da piastre sovrapposte di materiale cheratinoso e lucido come la cera; per meglio definire il loro ruolo sfoggiavano anche due stravaganti code come quella di uno scorpione, col pungiglione umettato da un qualche strano tipo di veleno che si formava senza sosta e che evidenziava macchie di polluzione grigiastra sul telson rosso fiamma.
Le operaie strisciavano sulla cosa, muovendosi sfruttando la naturale viscosità della carne viscida e unta, ed erano piuttosto veloci.
Di colpo gli tornarono alla mente le minacciose fiabe che narrava sua madre all’imbrunire, quando era tempo di dormire e lui non voleva saperne. Allora tentando di inchiodarlo sul suo misero pagliericcio, sadicamente raccontava storie di malefiche streghe che si aggiravano nella notte ghermendo quei bambini che, disobbedendo agli ordini dei saggi genitori, ancora non si erano calati in un sonno profondo. Le chiamava Estrie e secondo i suoi racconti erano bizzarre, primordiali creature con il corpo per metà donna e per metà lumaca; nere come la notte e perfide più del demonio.
“Everard!” La voce, sussurrata come un lamento, esplose nella testa dell’uomo. Non venne da nessun luogo preciso, solo si compose dentro di lui. La cosa ancora più raccapricciante, che quasi fece svenire la sua essenza nel sogno, fu che quell’enorme essere spostò contemporaneamente su di lui tutte le migliaia di occhi che lo componevano mentre quei vermiciattoli viscidi e neri si fermarono come morti; così immobili erano ancora più orrendi.
“Everard!” Ripeté l’essere.
Non rispose, non aveva voce fisica e quella della sua mente era obnubilata dalla meraviglia per quell’orrore che stava ammirando.
“Everard, sai chi sono io?” Il tono dolce della domanda parve stridere con la mostruosità della creatura che l’aveva posta e, per un tempo indefinito, l’uomo si sforzò di azzerare completamente ogni pensiero gli passasse per la testa, nel timore che la cosa potesse percepirlo.
La domanda venne ripetuta più e più volte, sempre con lo stesso tono suadente, senza nessuna inflessione dovuta all’irritazione o all’impazienza, come se quell’ammasso putrescente non avesse alcuna fretta, come se il tempo in quel luogo non esistesse.
Infine dopo l’ennesima domanda, in un moto disperato, Everard rispose: “No!”.
Altro tempo trascorse pesante come il piombo, finché come in una detonazione improvvisa tutte le domande raggrumate nello stomaco di Everard esplosero nella sua mente: “Dove sono? Tu cosa sei? Perché non sono in Paradiso?” E mille altre.
Ma quella più pregnante di tutte riguardava il premio per il suo martirio, la ricompensa che avrebbe dovuto attenderlo dopo la morte la beatitudine eterna. Gli era dovuta, il Papa glielo aveva garantito e ora la pretendeva.
“Ho combattuto per Dio, per lui sono morto trascinando come me tanti infedeli quanti ho potuto, mi attende la vita eterna, è mia giusta pretesa.
Una risata aspra, disumana, uscì dalla creatura, un misto di derisione e di compatimento; una lacerazione nell’anima di Everard.
“Chi mi ha creato lo ha fatto perché le persone come te pagassero per i loro crimini; con quale coraggio ritieni di non dover essere giudicato per i peccati che hai commesso? Chi è questo tuo dio umano che ritieni superiore al creatore di tutto?”
“Io ho ucciso i nemici di Dio e del Papa suo servo, non ho commesso peccato”.
“Hai spezzato delle vite innocenti, e questo è tra tutti i peccati, il peggiore. La consapevolezza di quello che ti attende è solo l’inizio. Il mio nome è Munkar, l’angelo giudicante; il mio compito è quello di separare il grano dal loglio”
“Cosa vuoi dire?” Ormai un orrore ancestrale aveva riempito l’essenza di Everard, si sentiva perso, sapeva che quello non era il paradiso che gli avevano promesso, anzi di più pareva l’inferno.
“Lo capirai!”
“Io sono morto per lui, Dio qualcosa mi deve!”
“Dio? Ah, la presunzione umana. Come potete voi supporre di dare un nome al Supremo Essere? Come pensate di poterne concepire l’immensità con la vostra comprensione limitata? Egli era, è e sarà per sempre”.
Le bocche immonde di Munkar si spalancarono e da ognuna di esse uscì un’ombra veloce: centinaia di ragni enormi, coi loro occhi multipli che brillavano d’odio e i ventri gonfi, lo assalirono ricoprendolo con le loro tele appiccicaticce.
Poi, una volta compiuto il loro immondo lavoro i servitori di Munkar presero il bozzolo e lo trascinarono all’interno della stessa bocca da cui erano usciti.
Adesso Munkar avrebbe cominciato a nutrirsi dell’anima di Everard des Barres per i prossimi secoli, fino a consumarla definitivamente.
Molto bello. Av rei voluto fosse un po’ più lungo per continuare a leggere.
Tanto gentile; in effetti questo è solo il prologo per l’ennesimo libro che sto tentando di scrivere. Nel capitolo dopo di questo l’azione cambia tempo e luogo, quindi la soluzione di continuità mi impedisce di “allungare il brodo”.
Comunque sia sono felice della tua visita e del tuo giudizio.
A presto
Al