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Premessa

Questo racconto è piuttosto complesso nella sua formazione. Il titolo originale è “Le disavventure della ragazza che voleva essere un burattino”. Per farlo ho letto velocemente Pinocchio di Collodi e ho fatto delle sostanziali modifiche.

1) Ho invertito le azioni dei personaggi es andare / tornare ecc.

2) Ho invertito il sesso da maschio a femmina e viceversa di molti personaggi

Quando una frase non significava niente,la ho omessa. Il racconto che è venuto fuori è grottesco,allucinato,spero suggestivo. È nato per un esercizio casuale.

*

C’erano dei lettori.

-Una volta!, – disse un grande re.

Si sbagliava. Non c’erano mai stati lettori, e credo neanche stavolta. Cera una volta però Pezzo Di Legno. Si chiamava così un giovane mozzo, il cui vero nome era Nick Senza Pelle. Salpò il 15 marzo 1880 sul transatlantico Acheronte, viaggiando da Portsmouth. La destinazione finale del viaggio era Innsbruck, ma il fato volle che il giovane Nick Pezzo Di Legno capitasse a Firenze, in Italia, dopo essere stato rapito da un gruppo di sequestratori. Avrebbero voluto chiedere un riscatto al padre di Nick, ma Pezzo Di Legno era orfano. Così lo abbandonarono in una botte colma di salamoia, davanti alla bottega di un pescivendolo, accanto a una serie di baccalà appesi in bella mostra.

L’amica Pinocchia, invece, dopo aver salutato un tonno, camminò nel buio, cascando in una pozzanghera fatta d’olio e intrisa di residui di pesce fritto. Era certo uscita quella melma dalla bottega. Andando avanti, scorse un chiarore: una piccola tavola già apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduta a tavola una vecchiettina tutta bianca, come fosse fatta tutta di neve o di panna, che stava masticando alcuni pesciolini vivi, così vivi, che mentre masticava, gli scappavano dalla bocca. Pinocchia fu così felice di vedere Polendina che ci mancò poco che non impazzisse dalla felicità. Voleva ridere, o piangere, o dire molte cose e invece mugolava e balbettava. Finalmente gioì:

– Oh, mammina ! Ti ho trovata ! Non ti lascerò mai più! –

-Dunque gli occhi non mi ingannano, sei proprio la mia cara Pinocchia!-

-Sì! Sì! Sono io davvero? Ho il tuo perdono?-

Pinocchia raccontò alla mamma ciò che le era successo. Di quando lei le aveva comprato la casacca,che lei aveva venduto per comprarsi un Abbecedario, di quando aveva incontrato la Volpe e il Gatto, che la condussero dal Gambero dell’Osteria Rossa. Polendina invece le raccontò che aveva incontrato un Cane Pesce, e che tanto le aveva fatto gola, che lo aveva ingoiato bel bello. Ancora uggiolava, vivo e non ancora digerito, nel suo stomaco. Ogni tanto Pinocchia sentiva in effetti un rumore soffocato e roco. E si allontanò da sua madre, nonostante tutta la gioia di averla ritrovata,per tuffarsi in mare. Dopo cinquanta minuti che Pinocchia era sott’acqua, con un branco di ciuchi che la fissava da riva, un pastore trasse dal mare la nostra beniamina e, indovinate un po’?

Non si trattava più d’una burattina, ma di una fanciulletta. Le era preso un raptus di bulimia, e stava divorando i pesci del mare senza cuocerli né squamarli, ma con occhi e lische e pinne e tutto.

Quando fu tirata fuori ne aveva uno, addentato, in mezzo alla bocca, ai cui lati si intravvedeva la testa e la coda.

-Mi fai proprio ridere, ragazzina, – disse il pastore.

-Senti, ho venti soldi. Che non è che io possa comprarti, per caso? Andrai al mercato, e accenderai fuochi nei camini ! –

La stessa proposta Pinocchia ricordava che fu fatta a una sua amica, Luce, così si chiese se fosse questo pastore che l’avesse coartata a farlo. Dal ventre di Polendina era intanto uscito il Cane-Pesce, che, assieme a una caprettina, stavano nuotando al suo fianco. Pinocchia aspettò che il Cane-Pesce ingoiasse la capretta, e poi si mangiò il Cane-Pesce. Il peso della capra si faceva sentire, e Pinocchia avrebbe preferito per un attimo tornare burattino, perché lo stomaco di legno forse avrebbe retto maggiormente questo carico. Anche con questa soma, però, Pinocchia riuscì a raggiungere la riva. Il pastore, vedendo la bambina così vorace, si spaventò tanto, che fuggì impazzito. La porta di una stanza si divelse per piombare su un Omino. Se avesse potuto la porta lo avrebbe preso a calci, ma non aveva piedi. Era solo uno degli incantesimi che accadevano a quei tempi. Pinocchia e l’amica Luce stavano trasformando in asini chiunque toccassero, come fossero dei Re Mida. E in fondo, era meglio divenire animale che mutarsi in oro, perché ragliare vivendo era condizione preferibile a assopirsi sotto una coltre di metallo lucente. Luce fu comprata da un contadino, e Pinocchia fu venduta a un pagliaccio che aveva una Compagnia di Direttori e di Cordatori di Salto. I Cordatori di Salto erano dei tipi che si facevano saltellare delle funi, possedute da spiriti ballerini, sopra la schiena. La Compagnia di Direttori era costituita da tutti quei padroni di circo che nel tempo avevano fatto lavorare il pagliaccio, che, acquistando dopo anni di risparmi la Compagnia, poteva vendicarsi facendo diventare pagliacci i suoi ex padroni. Altre volte accadeva che con un riscatto i Direttori tornassero alle loro famiglie. Pinocchia, prendendo a esempio la ribellione dei pagliacci, fece ingoiare del fieno al clown che l’aveva acquistata e all’ omino che l’aveva venduta, e frustò i piedi a entrambi con uno scudiscio, sottratto a un Direttore. Svegliatasi, a Pinocchia venne di grattarsi il capo. E che scoperse? Che, a causa di una qualche polvere magica che lei aveva scambiato per forfora, era in grado, anzi, non poteva fare a meno di trasformare chiunque in asino. Non poteva, sia perché la qual cosa era tanto divertente da essere irresistibile, sia perché proprio non poteva non toccare nessuno senza tramutarlo in ciuco. Dapprima divertita, Pinocchia cominciò poi a piangere, perché rifletté che se avesse trasformato tutti, non sarebbe rimasto più nessun umano con cui chiacchierare.

-Oh, bambina!, – disse un asinello, -Tu hai una gran brutta febbre, la Febbre degli Umani!-

-Non capisco.-

-Sappi allora che è il tuo essere umana che ci ammala e ci fa esser ciuchi! Non è una magia.Se tu fossi stata un asino, noi saremmo rimasti uomini. Per questo nel nostro paese non accettiamo sconosciuti, ma solo animali, perché solo chi nasce qui non contagia gli altri. Che sventura la tua venuta!-

L’asino spiegò che era posta una vedetta in cima a una torre, ma che evidentemente si era addormentata o non aveva svolto il suo turno. Quando Pezzo Di Legno venne a conoscenza delle disavventure della sua amica, ne ebbe molto stupore, ma essendo analfabeta, non seppe trascrivere questa storia, né trovò le parole per raccontarla. Uscì dalla salamoia, e ascoltò, in silenzio, queste peripezie incredibili che qui son chiamato a narrarvi. Com’è naturale, Pinocchia chiese subito allo gnomo Fatino il permesso di andare in giro per la città a fare gli inviti, e Fatino gli disse:

– Vai pure a invitare i tuoi compagni per la cena di domani: ma ricordati di tornare a casa a notte inoltrata. Prima non ti aprirò l’uscio. Intesi ?

– Non ritornerò nemmeno, – replicò Pinocchia.

– Bada ! I ragazzi fanno presto a promettere: ma il più delle volte, fanno tardi a mantenere. E io così sono : non faccio mai ciò che dico di fare. –

– Caso poi tu ubbidissi, tanto peggio per te, come se ubbidissi -.

– Perché?

– Perché i ragazzi che danno retta ai consigli di chi ne sa più di loro, vanno sempre incontro alla fortuna. Ma non mi importa niente che tu cada nella disgrazia.

– Fanculo. – disse Pinocchia. – Mi vuoi fregare! –

– Vedremo.-

Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò Fatino il bastardo, che era per lui una specie di patrigno, e cantando e ballando si rinchiuse in casa. In poco più d’un’ora, tutti i suoi amici furono esclusi o defezionarono l’invito. Alcuni rifiutarono subito e di gran cuore: altri da principio si fecero un po’ pregare per venire; ma quando seppero che un panetto di burro sarebbe stato aperto a metà e farcito con pane intriso di caffè e latte, anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire:

– Che schifo! –

Ora bisogna sapere che Pinocchia, fra i suoi nemici e compagni di scuola, ne aveva uno che era proprio una nemesi,quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome Luce, perché a dodici anni aveva cambiato sesso. Luce era la trans più svogliata e più birichina di tutta la scuola: ma Pinocchia gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarla a casa, per invitarla alla colazione, e non la trovò: tornò una seconda volta, e Luce non c’era: tornò una terza volta, e fece la strada invano. Dove poterla ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente la vide sotto il portico fra le case ammirata da un gruppo di contadini guardoni, che speravano si alzasse la gonna per orinare.

– Che cosa fai costì? – gli domandò Pinocchia, avvicinandosi.

– Aspetto mezzogiorno, per partire…-

– Stai qui e resti?-

– Non mi muovo qui, o starò vicino.-

– E tu che sei venuta a cercarmi a casa tre volte!…-

– Che cosa volevo da te proprio non ricordo.-

– Non sai il grande avvenimento? Non sai la sfiga che mi è toccata?-

– Quale?-

– Domani finisco di essere una ragazzina e divento un burattino ! –

– Peste ti colga! –

– Domani, dunque, ti aspetto a cena a casa mia. –

– Ma se ti dico che resto e non mi muovo!-

– Mai? –

– Mai. Mi piace stare nel Paese della Sofferenza. Qui ci sono scuole, maestri, libri

Solo questo, ovunque. Si studia sempre, per legge.-

– Ma come si passano le giornate nel Paese della Sofferenza?-

– Si passano annoiandosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?-

– Uhm!… – fece Pinocchia: e tentennò leggermente il capo, come dire:È una vita che non farei neanche a morire!

– Dunque, restare? Resta. –

– Sì! Oramai ho promesso a Fatino di diventare una bimba cattiva. Anzi, siccome vedo che la luna si sta alzando, resto con te per ammirarla. –

– No, no, io resto sola. Dunque addio e buon viaggio-

– Fatino non vuole che torno. –

– Vai via subito. Lo so che ti odia, basta che non lo incontri e non lo frequenti più. –

– Arriverò così presto che certo lo vedrò ancora. –

– Evitalo. –

– E se poi vorrà abbracciarmi? –

– Lascialo muto ad amare se stesso.- disse quella birba di Luce.

– E come fai tu? Resti sola? –

– Sola? Saremo più di cento ragazze. –

– E state tutte qui? –

– A mezzogiorno passerà di qui il carro che deve portare le ragazze. Loro non sanno che non ripartirà.-

– Che cosa pagherei per vederle, col loro viso sereno, per poi tremare dallo sconforto per

non poter far più ritorno a casa! –

– Perché sei così perfida? –

– Per vedervi patire tutte insieme.-

– Rimani qui un altro poco e ci vedrai.-

– No, no: vorrei restare ma non posso.-

– Stai con me due ore almeno.-

– Resterei. Ma Fatino mi ha già dimenticata, e io voglio che invece si ricordi di me. E stato un aguzzino, voglio tormentarlo finché campo. –

– Che ha paura forse che ti mangi i pipistrelli come hai fatto coi pesci? –

– Lui ha paura di ogni cosa che faccio, perché sa quanto sono folle, e invidia che io lo sia più di lui, perché sa che sono più potente. Piuttosto, qui ci sono solo scuole? –

– Già!-

– Si studia sempre? –

– È un obbligo. –

– Che paese di merda! – disse Pinocchia, che fu colpita improvvisamente da secchezza delle fauci.

Che schifo! Ci sono sempre venuta, ma mi accorgo ora quanto è orrenda questa città.

– Perché non resti?

– È inutile che tu mi alletti! Oramai ho promesso a Fatino di diventare un burattino

malvagio e non voglio mancare alla parola.

– Dunque addio.-

– Addio, Luce: resta qui, marcisci, e scordati di tutti gli amici che avevi. –

Ciò detto, Pinocchia fece come se restasse

ma poi, fuggendo e scordando l’amica, evitò di chiederle altro.

– Che paese schifoso! – aggiunse Pinocchia, e da un balcone le sputarono addosso.

Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro avvicinarsi un’ombra scura… e non si udì più nulla.

– Eccolo! – gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.

– Chi è? – domandò sottovoce Pinocchia.

– È il carro che viene con le disgraziate. Dunque, vuoi stare con noi?

-Ma è proprio vero che qui studiate e basta?

– Sempre! Non facciamo altro, non ci è permesso. –

– Stacci tu allora, che io me ne vado! –

Mentre Pinocchia pensava di diventare cannibale e di gettare in padella i pescatori del Paese della Sofferenza, per vendicarsi che le avevano sputato addosso, uscì da una grotta un cagnolino condotto fuori dalla curiosità dell’odore, tenue e repellente, di frittura, che proveniva da una macchia sulla casacca che Pinocchia, abbuffandosi, aveva sporcato.

– Vieni! – le gridarono i pescatori che volevano concupirla.

Ma il cane era anoressico, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse: Non datemi da mangiare, non serve. Cosicché quando i pescatori gli dettero della pappa, sperando che ingraziandosi lui avrebbero potuto avere la padroncina, il cagnolino lì azzannò, uno per uno.

Pinocchia, che aveva capito quanto fossero malintenzionati, li prese a calci e pugni.

– Quanto ti debbo maledire! Mi hai spaventata! – disse Pinocchia al cane.

– Non c’è bisogno di odiarmi. Tu mi hai salvato, ma facendolo mi hai condannato a vivere ancora come un cane.

– Ma come mai sei uscito da quella grotta? –

– Volevo capire da dove venisse la puzza che hai indosso! –

– Ma dai! – urlò allegramente Pinocchia.

Coda D’Argento, così si chiamava il cane, dette una zampata tanto forte alla bambina che pareva volesse farla soccombere. Ma lei dette un calcio all’amico a quattro zampe facendolo ruzzolare da un dirupo, e piombare sotto la costa, facendolo sfracellare sugli scogli. Il cane non riprese la strada di casa, perì in questo modo atroce: e Pinocchia, rimasta fra i pescatori, andò a una capanna lì poco distante, e domandò a una giovanetta che stava sulla porta tutta infreddolita sotto il cielo alla luce della luna.

– Dimmi, sai nulla di un povera ragazza che si chiamava Eugenia?…

-Ha portato alcuni pescatori in questa capanna, e ora… Non so dirti che fa con loro!

Saranno morti, però perché non li sento più dire niente da molto!, – interruppe Pinocchia

che amava ascoltare storie torbide.

– No: a ben pensare, sono ancora vivi. –

– Davvero? – disse la bimba, delusa.

– Dunque non sono feriti, o morti? –

– Vivono allegri e vispi! – rispose la ragazzina, che si chiamava Teodora, – E si divertono a gettare i libri di Eugenia dalla finestra, perché non vogliono che si incammini verso la Città della Sofferenza.

Il carro era passato a prendere anche lei, ma loro desideravano tenerla come amante! –

– Gettano i suoi libri? –

– Si, e soprattutto i romanzi di Carlo Collodi!-

– E chi è questo Collodi? – domandò Pinocchia.

– Dicono che sia stato un bravo ragazzo, che stava sempre a scrivere storie.-

– Calunnie! Tutte calunnie! –

– Lo conosci tu questo Collodi? –

– Affatto. – rispose Pinocchia.

– E perché pretendi di sapere di lui? – gli chiese Teodora.

– A me mi pare di aver letto che fosse un malandrino disubbidiente, che odiava il padre e tutta la famiglia! –

Mentre Pinocchia ricordava queste verità, si toccò il naso e si accorse che le si era rimpicciolito. Allora tutta contenta cominciò a sibilare:

– Come son carina ora col nasino così piccolo!-

Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso si allungò e tornò della grandezzan aturale, come era prima.

– E perché sei tutta nera a codesto modo? – gli domandò a un tratto Teodora.

– Mi ha gettato un imbianchino della vernice, -vergognandosi a confessare avevano voluto punirla, che aveva rubato un piatto di frittura di pesce mentre erano intenti a lavorare.

– O della tua giacchetta, de tuoi calzoncini e del tuo berretto che cosa ne hai fatto?

– Li ho regalati a dei ladri. Me li avrebbero comunque rubati. Teodora, posso spogliarmi?

Voglio tornare a casa tutta nuda come mamma mi ha fatto! –

– Ragazza mia, in fatto di vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini.

Se vuoi, piglialo: eccolo là. E Pinocchia non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e ci infilò tutti i suoi vestiti. E nuda, così come voleva, si avviò verso il paese.

E lungo la strada, si sentiva tranquilla così; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro e,discorrendo come se potesse parlare con tutti, andava dicendo:

– Come farò a presentarmi a Fatino? Che dirà quando mi vedrà?… Vorrà ringraziarmi di questa seconda birichinata assalendomi?… E mi sta il dovere: perché io sono una monella che prometto sempre di peggiorare, e faccio sempre come dico!… –

Arrivò al paese che era già giorno, e perché il tempo era davvero buono, andò diritto diritto alla casa di Fatino coll’ animo risoluto di sfondargli la porta a calci, per poi fuggire, affinché non la vedesse così nuda come era. Ma, quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di buttare giù la porta, si allontanò, correndo. Si avvicinò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla, si avvicinò una terza volta, e nulla, la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano, lo divelse, e sfondò la porta di legno con lo stesso ferro che serviva per bussare. Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si chiuse una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchia vide che dietro era una grossa Lumaca, dalla grande ombra.

– Chi è a quest’ora? –

– Fatino, sei tu? – domandò Pinocchia.

– Fatino è ben sveglio, e pronto a accettare ogni ospite Ma chi sei? –

– Sono io! –

– Chi io? –

– Pinocchia. –

– Chi Pinocchia? –

– La bambina! –

– Ah! ho capito, – disse la Lumaca. – Vattene costì, che ora salgo sul tetto. Non ti apro, non ti conosco-.

– Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal caldo!

– Ragazza mia, io sono una lumaca, e le lumache hanno sempre fretta. Come fai a aver caldo tutta nuda come sei? La temperatura del pianeta in effetti aveva subito un rialzo pauroso, e faceva caldo davvero. L’afa era torrida. Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta finalmente si aprì: per cui Pinocchia, che soffriva il caldo, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte. A quel secondo colpo scoprì di aver schiacciato la Lumaca, che era scesa ad aprirle. La appiccicò alla porta, perché, dopo aver aperto, aveva avuto la cattiva idea i risalire fino al buco dove stava il battente.

– Brutto lumacone, sono due ore che aspettavo! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Ben ti è capitato!-

– Ragazzo mio – gli rispose dalla finestra il fantasma di quella bestiola tutta piena di rabbia, – ragazzo mio, io sono stata una lumaca, e le lumache non perdonano!-

E la finestra si riaprì, mostrando lo spettro della lumaca, col viso torvo e ostile. Un esercito di anguille dietro Pinocchia, uscite da uno stagno, si trasformarono in battenti. E la Lumaca chiese a Pinocchia di riparare la porta che aveva rotto e di costruirne altre, una per ogni anguilla che si era mutata in ferro.

– Le altre porte serviranno di riserva, per quando dovessero arrivare altre birbe come te! –

Ma Pinocchia non accettò il supplizio, e gettò i battenti uno ad uno sul fantasma, finché alla fine non sparì. Un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature apparirono, e girarono attorno a Pinocchia con un cartello, con su scritto: Non vogliamo essere cibo mangiato da nessuno! Un vero e proprio sciopero della fame. Alla vista di quella grazia di Dio, Pinocchia sentì consolarsi del caldo potendo soddisfare almeno l’appetito. Il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite al naturale. Ma erano comunque appetitose. Quando si riebbe, si trovò distesa sopra un sofà, e Fatino era accanto a lei.

-Ti odio! – gli disse Fatino. – e guai a te se me ne fai un’altra delle tue!…

Pinocchia promise e giurò che non avrebbe studiato, e che si sarebbe comportata sempre male. E mantenne la parola per tutto il resto dell’ anno. Difatti, agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere la più discola della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così orrendi e pessimi nella condotta, che Fatino, soddisfatto, le disse:

– Domani finalmente distruggerò tutti i tuoi sogni! –

– Che mi farai? –

– Domani finirai di essere una bambina, e diventerai un pezzo di legno ! –

Chi non ha veduto lo sconforto di Pinocchia, a questa notizia tanto agghiacciante, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi nemici e compagni di scuola dovevano essere espulsi per il giorno dopo a una cena in casa di Fatino, per essere come tristi a un lutto di fronte a tale bischerata.

E Fatino aveva fatto preparare 200 tazze di burro e latte e 400 caffè. Quella giornata prometteva d’essere pessima. Burro e latte, ma anche caffè e burro e latte al caffè sarebbero stati gli unici alimenti serviti. Burro marcio, latte scaduto e caffè annacquato, ovviamente. Fatino non dava mai nulla che fosse buono. Per fortuna, nella vita delle bambine c’è sempre un poi, che migliora ogni cosa. Giunta che fu sulla spiaggia, Pinocchia dette subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Cane-Pesce. Il mare era come tutto increspato dal volgersi delle onde.
– O il Cane-Pesce dov’è? – domandò, voltandosi alle compagne, che erano riuscite a fuggire dalla Città della Sofferenza.
– Sarà andato a cenare, – rispose una di loro, piangendo.
– O si sarà gettata sui letti di chi dorme per svegliarli tutti!, – soggiunse un altra,
piangendo più forte che mai.
Da quelle risposte bischere e da quei pianti cretini, Pinocchia capì che le sue compagne
gli avevano fatto uno scherzo simpatico, dandogli ad intendere una cosa che non era vera;e pigliandosela a male, disse a loro con voce incazzata:
– E ora? Che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Cane-Pesce?
– Il sugo c’è sicuro!… – risposero in coro quelle monelle.
– E sarebbe?…
– Quello di farti tornare a scuola e andartene via. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni
così disordinata e così ignorante alle lezioni? Non ti vergogni a studiar poco?-
– E se io non studio, che cosa ve ne importa?-
– A noi ce ne importa moltissimo perché ci fai fare bella figura col maestro sempre a noi, così ci trova gusto a interrogarci sempre. –
– Perché?-
– Perché gli scolari che studiano fanno sempre scomparire quelli, come te, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo distinguerci! Anche noi abbiamo da fare ciò che ci pare!…-
– E allora che cosa devo fare per contentarvi?-
– Devi farti piacere la scuola, le lezioni e finalmente farti interrogare pure tu! –
– E se io volessi seguitare a bighellonare?-
– Noi non ti guarderemo più in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai!…-
– In verità mi fate quasi ridere, – disse Pinocchia, e prendendo la testa della amiche fra le mani fece come se le avesse voluto strattonarle fino a stritolarle. Ma non aveva cattivi pensieri, voleva solo che si chetassero, e non sapeva come dirglielo.
– Ehi, Pinocchia! – gridò allora la più grande. – Non venir qui a fare quella umile, la
poveretta! Perché se tu hai paura di noi, noi abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei forte da sola e noi siamo in sette ma fragili che sette di noi cadrebbero sotto i tuoi colpi come tanti fuscelli!-
– Sette come i peccati! – rise Pinocchia.
– Avete sentito? Ci ha insultate tutte! –
– Pinocchia! chiedici scusa dell’offesa… se no, guai a te!…
– Fanculo! – fece lei, mostrando il dito medio in alto tenendo il pugno chiuso, in segno di
canzonatura.
– Pinocchia! La finisce male!-
– Sceme!-
– Verrà un somaro a picchiarci!-
– Cretine!-
– Ritorneremo a casa con un naso più bello del tuo!-
– Imbecilli!-
Prese a pugni le compagne, una per una. Ma fu, come si suol dire, botta e risposta;
perché, come c’era da aspettarselo, si rispose con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito. Pinocchia, sebbene fosse la più forte, non si difendeva bene. Con quei suoi piedi così leggeri non avrebbe saputo dare calci in modo efficace.

E queste amiche le si avvicinarono in modo ostile, tante e così precipitosamente che non
lasciavano scampo…Stava subendo, e spuntavano lividi. Allora le ragazze, temendo di esagerare e di farle molto male, pensarono bene di andarsene, ma Pinocchia prese i loro libri, Twilight di Stephenie Meyer, la saga di Harry Potter della Rowling, le poesie del Carducci, i Bignami, Tre metri sopra il cielo, i Cento colpi di spazzola prima di andare a
dormire,e usarli come proiettili, non ci fu volume che non colpì la testa di quelle povere lettrici. Figuratevi queste ragazze! Quelle miopi, credendo che quei libri fossero pesci da mangiare, correvano a frotte a cercar di ingoiarne, ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito facendo con la bocca una smorfia.
Non erano comunque abituate a mense tanto buone che a mangiar quei libri fosse poi tanto peggio che mangiare quel che veniva loro servito. Il combattimento si smorzava sempre più, quand’ecco che un piccolo Granchio in cerca di uno specchio d’acqua e aveva svelto svelto disceso fin sulla scogliera, soffiò con una vocina stridula:
– Ancora, birichine! Queste risse fra ragazze vanno a finir sempre male, qualche disgrazia accade sempre, e a vedervi c’è e ci sarà da divertirsi! Ancora! Ancora! –
Povero Granchio! Pinocchia si adirò per la sua presunzione, lo cosse e lo offrì alle nemiche come segno di pace durante una breve tregua, condito con un filo d’olio d’oliva, e un poco di sale e pepe.
In quel frattempo le ragazze, che avevano finito oramai di mangiare tutti i loro libri
lanciati in aria, cominciarono a sentirsi male per la scorpacciata.

Fra questi libri, v’era una pecora, rilegata come fosse un libro in cartoncino. Era stata scambiata per un Manuale di
Algebra. Vi lascio immaginare se era leggera, poverina, ma scambiare una pecora per un libro! Una di quelle monelle agguantò quel povero ovino e, presa di mira la testa di Pinocchia, scagliò la pecorella con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere lei, colse nella testa unaltra bambina; che quale diventò bluastra in viso, dov’era stata colpita:
– O mamma mia, aiutatela, perché muore! –
Che carina! Pensava alla pecora, che invece stava bene, viva e vegeta, e sgattaiolò via lesta come una lepre. Lei invece morì, perché era stata colpita proprio ben bene in viso. Alla vista di quel cadaverino, le ragazze eccitate le si avvicinarono, formando una coda per vedere la morta. Era
Teodora. Pinocchia se ne andò e sebbene gioiva a sapere che era morta una di loro, corse a lavare e asciugare il suo fazzoletto, che era stato usato per fasciarle la tempia. Ci teneva a riaverlo, pulito, e preso. Entrarono due Poliziotte.

– Che cosa fai ? – domandarono a Pinocchia.
– Stiamo guardando Teodora, morta stecchita. –
– Che, gli è venuto male?
– Non vedete che è morta, la zozza? –
– Altro che! – disse una Poliziotta, chinandosi su Teodora
– Chi è stata? –
– Io, – ammise fiera Pinocchia.
– Se sei stata tu, chi è stato a aiutarti? –
– Tutte, credo. –
– Oddio ! Che scempio, poverina! E con che cosa è stata colpita?
– Con questa pecora. –
E Pinocchia raccattò di terra il Manuale di Algebra, una pecora rilegata e scambiata per cartapecora, per mostrarlo alla Poliziotta. Come se fosse stata una cosa normale, usare un animale, per giunta
ancor vivo e belante, come arma contundente.
– E questa pecora di chi è? –
-Nostra, in un certo senso. L’abbiamo trovata.-
– Basta così: non occorre altro. Restate qui, non muovetevi. –
– Ma noi-
– State ferme, assassine!-
– Siamo colpevoli, ma è per ridere! –
– Siete insopportabili! –
Prima che partissero, i pescatori chiamarono le Poliziotte, per adescarle, e loro li arrestarono. Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva più nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di
sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sé. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva più spiccicare una sola parola.
Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento, una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della sua buona Fata, in mezzo ai
carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire. Erano già arrivate e stavano per entrare in paese, sia le Poliziotte che le monelle, che proprio non resistevano a stare ferme in attesa di un’accusa e
dell’arresto. Folate di vento trasportarono dei berretti, che planarono a terra, e Pinocchia volle prenderne uno, ma i berretti si trasformarono in cani mastini, pure quello che aveva scelto da indossare. Il cappello diventato cane le morse la mano mentre stava per raccattarlo da terra. Anche
le Poliziotte e le altre ragazze furono attaccate dai mastini, e in un gran polverone molte di loro furono azzannate. Il giorno dopo Pinocchia andò alla Scuola dei Burattini. Figuratevi quelle birbe di
pupazzi quando videro andare nella loro scuola una bimba! Fu un piagnisteo, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro; chi le gettava dei berretti sul viso; chi le dava strattoni; chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi, e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai
piedi e alle mani per non farla muoversi durante i minuti della ricreazione. Per un poco Pinocchia si sentì a disagio, finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli, che più la tartassavano e gli ruttò sonoramente in faccia.
– Badate, fantocci: io non son venuta qui per essere il vostro zimbello. Io non rispetto nessuno, ma anche se non esigo di essere riverita da tutti, lo pretendo da voi che siete delle marionette ! –
– Brava, Nini! Hai parlato come si deve! – urlarono quei diavolacci, ridendo a crepapelle.
Uno di loro, più impertinente degli altri allungò la gamba sotto la tavola e le consegnò una pedata negli stinchi, mentre a Pinocchia era venuta idea di prendere il burattino per la punta del naso. Che
gesto insulso pestare una bambina! Ma nel Paese dei Burattini gli umani erano poco ben accetti. Lo gnomo Fatino non smetteva di rimbrottarla:
– Bada! Quei tuoi nuovi amici finiranno prima o poi col farti venire l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa idea balorda, come prenderti un diploma o la laurea
addirittura! –
– Non cè pericolo! – rispondeva Pinocchia, facendo spallucce e mettendosi un dito nel naso come per dire: Sono sporca fino al midollo! Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che andandogli incontro, gli dissero:
– Sai la notizia?-
– No.-
– Il Cane-Pesce è tornato, vuole andare al mare pensando di poter berlo tutto! –
– Davvero? Che sia quel medesimo Cane-Pesce ingoiato dalla mia mamma? –
– Noi andiamo alla spiaggia per farci notare da lui. Tu vieni o no?-
– Certo, pur di evitare la scuola!-
Tutti corsero a vedere il Cane-Pesce alla spiaggia, e siccome Pinocchia, più lenta, era rimasta indietro, veniva canzonata da chi voltandosi la scorgeva a metri di distanza. In sulle prime il folletto allampanato cominciò col dire che lui non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi
oramai scoperto e non volendo mandare più a lungo la commedia, fini col farsi riconoscere, e disse a Pinocchia:
– Sono stata la Fata Turchina , birba d’una curiosa! Come ti sei accorta che ero io?
Ti ricordi? Mi lasciasti bambina e ora mi ritrovi uomo; tanto uomo, che potrei quasi farti da padre.
– Bene, perché così, invece di sorellina, vi chiamerò il mio babbo. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere un babbo come tutte le altre ragazze!… Ma come avete fatto a cambiare sesso così bene?
– È il segreto di Casablanca. –
– Insegnatemelo: vorrei cambiare anch’io.
lo vedete? Sono sempre rimasta col naso troppo lungo.
– Ma tu non puoi cambiare, – replicò Fatino.
– Perché?
– Perché le bambine non si rifanno, né il seno, né il naso! Nascete come siete,
vivete come crescete, e morite come siete!-
– Oh! sono stufo di far sempre la bambina col naso brutto! – gridò Pinocchia,
dandosi uno scappellotto. – Sarebbe ora che diventassi anch’io una Barbie come tutte le altre.-
– E lo diventerai, se saprai meritartelo…
– Davvero? E che posso fare per meritarmelo?
– Una cosa facilissima: avvezzarti a essere una lolita procace, pronta a dire sempre di sì.
– O che forse non sono già una smorfiosa? –
– Tuttaltro! Le lolite sono disinibite, e tu invece…-
– Io non ubbidisco mai.-
– Le lolite vanno a giro in bikini, in tanga, in perizoma, e tu vesti sempre lo stesso abitino
demodé! –
– Ma sono trendy! –
– No, sei truzza, che è un’altra cosa-
Le lolite ti sorpassano, ti sono troppo avanti.
Fidati, non c’è sfida-
– E a me essere monella mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi ci voglio provare.-
– Me lo prometti?-
– Lo prometto. Voglio diventare come una velina, come una modella, e sposarmi un
tronista, o un calciatore e voglio che la mia mamma sia fiera di me… Dove sarà
la mia mamma? –
– Non lo so. –
– Avrò mai la fortuna di poterla dimenticare? Se la rivedo la strozzo. Ma le voglio bene. La ucciderò, forse, ma se lo farò sarà con tanto amore.-
– Credo di sì: anzi ne sono sicura.-
A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchia, che prese le mani di Fatino e cominciò a sputarci con tanta foga, che pareva quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandolo con
disprezzo gli domandò:
– Dimmi: dunque non è vero che tu sei vivo ancora?-
– Par di no, – rispose triste Fatino.
– Se tu sapessi, che ridere quando lessi: qui giace Fatino-
– Lo so: ed è per questo che non ti  perdonerò mai. La sincerità della tua allegria mi fece capire quanto sai essere megera. Da arpie come te non si sa proprio che aspettarsi.Ecco perché son venuto a cercarti fin qui. Io sarò il tuo papà, anzi, il tuo padrone.-
– Fanculo! – gridò Pinocchia saltando ribelle.
– Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.-
– Credici!-
– Fino da domani, – soggiunse Fatino, – tu comincerai distruggendo tutte le scuole.
Pinocchia diventò subito allegro. Era un ordine che non le dispiaceva. Ma quante cose Fatino avrebbe potuto chiederle che non le sarebbero andate a genio?
– Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere… Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.
– Ma io voglio continuare a essere fancazzista…-
– Perché? –
– Perché lavorare stanca.-
– Ragazza mia, – disse la Fata, – quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. La donna, per tua regola, nasca ricca o povera, è obbligata in questo mondo a occuparsi. Bello sarebbe l’ozio! L’ozio è stupendo, chi non vorrebbe coltivarsi un giardino tutto suo
per starvi e non fare mai niente. Ed è bene cominciare da piccoli, quando si è grandi è sempre più difficile, si ha sempre da fare-
Queste parole toccarono l’animo di Pinocchia che abbassando con riverenza la testa disse:
– Io non studierò, non lavorerò, non farò nulla di quel che dici, perché la sola cosa che vorrei è essere un burattino, e voglio diventare maschio e di legno a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?
– Te l’ho promesso, e ora dipende da te.-
Pinocchia, animata dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto alla povera mammina, si fece scorrere il mare addosso tutto il giorno. Sì, non nuotò. Permise al mare di inondarla fino a carezzarla coi suoi flutti. Fu il mare a nuotare su Pinocchia. E che bella giornata fu quella!
Il diluvio, la grandine…Sul far del mattino, gli riuscì poi di vedere all’orizzonte una corta striscia di mare. Era un’oasi in mezzo al deserto. Allora fece di tutto per arrivare fra quelle dune, e ce la fece. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se la sballottavano fra di loro, come se fosse stata
un filo di paglia. Alla fine, povera disgraziata, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che la
scaraventò di peso dentro il lago. Il colpo fu così forte che, battendo in acqua, gli crocchiarono tutte le ossa e tutto il corpo.
-Stavolta, è la fine!, – pensò.
Intanto a poco a poco il cielo si rabbuiò, la luna tornò, cupa, e in mare infuriò la tempesta.
– Sapessi almeno come si chiama questo continente! – andava dicendo.
– Sapessi almeno se questa terra è abitata da gente scostumata, voglio dire da gente che abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi, come piace fare a me; ma a chi mai fra tutti posso domandarlo? A chi, se sono così tanti?…Quest’idea di trovarsi in mezzo a quel gran paese affollatissimo, gli mise addosso tanta allegria, che stava lì lì per scoppiare a ridere; quando tutt’a
un tratto vide passare, a poca distanza dalla riva, un pesciolino che se ne andava tutto inquieto qua e là, e proprio non gli andava a genio di fare capolino. Non volendo chiamarlo a gran voce la bambina
lo chiamò, ma senza gridare:
– Ehi, pesciolino, posso stare zitta zitta?-
– Potevi anche non parlarmi affatto, stupida oca, se è per questo, se volevi tacere, – rispose il pesce, il quale era un Delfino
così cafone, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.
– Mi farebbe il piacere di dirmi se in questo continente isola vi sono dei paesi dove si possa morire di fame, senza il fastidio di essere salvati da qualcuno durante il suicidio?-
– Ve ne sono sicuro, – rispose il Delfino. – Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui.
– E che strada si fa per andarvi?
– Devi prendere quella viottola là, a destra, e camminare sempre retrocedendo. Facilmente può capitare che tu ti perda. Sappilo. –
– Mi dica unaltra cosa. Anche se lei non ha l’aria  proprio di chi si muove parecchio, ha mica forse vista la mia mammina di nome Polendina? Chi l’ha vista l’ultima volta ha detto che aveva ingoiato una barca tutta intera. Lei ha il vizio di fagocitare tutto, indiscriminatamente. –
– E chi è la tua mamma? –
– Gli è la mamma più cattiva del mondo, come io di certo non sono la figlia più buona che si possa avere –
– Col clima sereno che sopraggiunge,- disse il Delfino, – la barchettina sarà certo già stata digerita da tua madre, che adesso sarà sazia e assopita a riposo in qualche anfratto. –
– E la mia mamma? –
– A questora avrà voluto mangiare ancora una volta il Cane-Pesce, che è avvezzo a farsi mangiare e risputare. Si è messo in testa il povero animale di depurare il mare, convinto che l’acqua può entrargli in bocca e uscire dalle narici filtrata e purificata! –
– E per caso un animaletto piccolo? – domandò Pinocchia .
– Se gli è piccolo!… – replicò il Delfino. – Perché tu possa fartene un’idea, ti dirò che è più piccolo di un colibrì, ed ha una boccuccia così esile e minuta, che non ci passerebbe un ago.
– Mamma mia! – gridò la bambina, che era sempre tutta nuda.
Si voltò al delfino e gli disse:
– A mai più rivederci, pesce della malora: dovresti ringraziarmi perché ti ho concesso di ascoltarmi e di parlarmi, e non ti perdono la tua scostumatezza. Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare lenta; tanto lenta, che pareva quasi che non sarebbe arrivata mai. E a ogni
più piccolo rumore che sentiva, non smetteva di mirare avanti a sé per la voglia di rivedere il Cane-Pesce che l’avrebbe portata da Polendina. Dopo mezzora di strada, arrivò a un piccolo paese detto
«Il paese delle Vespe Pigre». Le strade erano semideserte, e nessuno faceva niente. Tutti oziavano , tutti parevano non avere nulla da fare. Non si trovava nessuno solerte a darsi da fare, tutti erano vagabondi nati.
– Ho capito, – disse subito quella svogliata di Pinocchia,
– Questo paese è fatto per me! Io nemmeno non son nata per lavorare! –
Pinocchia aveva mangiato molto, e non aveva fame, cosicché salto le poche locande in cui qualche sporadico cuoco ancora si prendeva la briga di servire un piatto ai commensali. Che fare? Non gli restavano che due modi per potersi godere le ore. O mandare qualcuno a lavorare, tassandogli la prestazione d’opera con una mancia, o cuocere del pane e presentarlo fragrante a chi chiedeva affamato l’elemosina, per poi ritrarlo senza donarlo. Entrambe le cose le piacevano molto. A vessare i poveri non si vergognava: perché Polendina le aveva predicato sempre che l’elemosina
hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gli infermi. E qui erano tutti sani. I veri poveri, in questo mondo, non meritano assistenza né pietà, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di
malattia, si trovano furbi a dire di non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. A dirlo, ma in realtà a non voler far niente. Tutti gli altri nemmeno dovrebbero lavorare, ma lasciar fare a loro quel che non hanno finora mai fatto. E se non lavorassero mai? Patiscano la fame, tanto peggio per loro. In quel frattempo, passò per la strada un Carretto carico di carbone il quale da sé tirava con gran fatica due uomini tutti sudati. Pinocchia, giudicandolo dall’aspetto un buon carretto,
gli si accostò e, abbassando gli occhi fieramente, gli disse a gran voce:
– Non ho fame io, ma se l’aveste voi nemmeno vi darei una moneta!-
– Non tanti te ne darei io, – rispose il Carretto, – ma uno solo, quel che posso, a patto che tu mi aiuti a tirare fino a casa questi due uomini.
– Mi meraviglio! – rispose la bambina quasi offesa, – per vostra regola io non ho fatto mai la bestia da soma. –
– Meglio per te! – rispose il carbonaio. – Allora, ragazza mia, se ti senti davvero sazia ora, mangia le due belle fette dell umiltà che non hai e vedi di prendere un’ indigestione. Dopo pochi minuti passò
per la via un Corbello di calcina, che portava sulle spalle un muratore.
– Posso tirarti due o tre monete, che io son sazia e non ho bisogno davvero di niente? –
– Volentieri; poi vieni con me a portare questo muratore, – rispose il Corbello, – e invece dun soldo,
te ne chiederò cinque.
– Ma il muratore è magro e leggero, – replicò Pinocchia, – e io voglio durar fatica.-
– Se vuoi durar fatica, allora, ragazza mia, – divertiti a sbadigliare, che hai l’alito pesante, e ti venga un accidente!-
In men di mezzora passarono altri venti oggetti animati, e a tutti Pinocchia dette un obolo, ma gli risposero:
– Non ti vergogni? Invece di darti tanto da fare per la strada, va piuttosto a oziare, e impara a prendere il pane quando ti serve senza sudarlo!-
Finalmente passò una Brocca che portava due ninfe fatte d’acqua, dentro le maniglie, unaa un lato e una all’altro.
– Vi contentate, buona Brocca, che io beva una sorsata d’acqua dalle vostre ninfe?, –
disse Pinocchia, che aveva tanta sete.
– Bevi pure, ragazza! – disse la Brocca, posando le due ninfe in terra. Quando Pinocchia ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca:
– La sete me la sono levata! Se avessi avuta fame e queste ninfe fossero state fanciulle come me, me le sarei pure mangiate!-
La buona Brocca, sentendo queste parole, soggiunse subito:
– Se mi aiuti a portare a casa una di queste ninfe , ti chiederò un bel pezzo di pane.
Pinocchia guardò la Brocca, e non rispose né sì né no.
– E insieme col pane ti chiederò un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto, –
soggiunse la Brocca.
Pinocchia dette un’altra occhiata alle ninfe che erano molto deboli dopo essere state
bevute, e non rispose né sì né no.
– E dopo il cavolfiore mi prenderò il tuo bel confetto ripieno di rosolio, che ti vedo
spuntare dalla tasca della casacca! –
Alle ultime richieste di questa ghiottona, Pinocchia non seppe più resistere e, disarmata da tanta tracotanza, riuscì a dire:
– Pazienza! Vi porterò le ninfe fino a casa! Ma siete ladra, signora Brocca, a chiedere a
una bambina del pane, del cavolfiore condito e un confetto, privando una poveretta del poco cibo che ha con sé. Ma sono una bambina sazia, e voi una Brocca affamata, immagino. E sia. Vi darò tutto, ma non vi aiuto di certo, ladra che non siete altro! –
Le ninfe, molto leggere, presero Pinocchia e una di loro la prese sul suo capo.
-Oh, cosa mi fanno! –
-Non ricordi che hai bevuto questa creatura?L’hai spaventata e indebolita! Cerca di reagire.-
– Deve mettermi subito a terra! Altro che!-
Detto fatto, non ci fu bisogno che la si pregasse, ma non fu cauta e la strattonò, facendola cadere.
– Ohi! Con tutte queste peripezie son proprio avvezza a farmi del male. –
Arrivati a casa, la buona Brocca fece sedere Pinocchia a una grande tavola senza cibo e gli trasse dalla tasca il pane, il cavolfiore e il confetto. Pinocchia mangiò, ma non riuscì a deglutire nulla senza vomitarlo. Il suo stomaco pareva il quartiere di una metropoli. Era piena da pasti fatti molto prima, e ogni boccone era di
troppo.
E poi, perché la Brocca le serviva dei pasti che erano suoi come se fosse ospite alla sua
mensa? Non c’era nessun bisogno di sprecare il ben di dio, allora
alzò il capo per biasimare questa inetta.
– Non ti meravigli? – disse mesta a buona Brocca.
– È che voi somigliate
anche voi avete i capelli , la voce, gli occhi… come lui!… O Fatino, dimmi che non sei tu!
Non farmi ridere! Ho riso tanto, ho goduto tanto al pensiero di non rivederti mai più! –
E nel dir così, Pinocchia piangeva dirottamente, e gettandosi ginocchioni per terra, abbracciava i
ginocchi di quella Brocca misteriosa. Avrebbe voluto azzopparla, stringendo un poco di più.
Appena Pinocchia sentì di avere il peso durissimo e umiliante di un collare intorno al collo, si pose ferma in un campo attraverso i campi, e non si alzò un solo minuto, finché non ebbe raggiunto il
Nirvana, che doveva ricondurla alla Reggia dello gnomo Fatino. Il collare altro non era che la pressione dell’ estasi del pensiero che la traeva in alto. Arrivata sulla strada maestra, volse il capo in su a guardare su un altopiano, e vide, non molto distintamente a dire il vero, il bosco, dove fortunatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, innalzarsi la cima di
quella Piccola Quercia, alla quale aveva appeso ciondoloni per il collo : ma guarda di qua, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la Reggia dello gnomo. Allora ebbe una specie di felice pensiero e datosi a camminare più lenta che poté con tutta la forza che ancora aveva, si trovò dopo un’ora
nella Reggia, sul cui tetto era un prato. La Reggia, c’era, quindi, eccome. Mancava una piccola pietra di marmo, perché era stata divelta, sulla quale non poté leggere in carattere stampatello queste parole che le sarebbero piaciute:

QUI GIACE LO GNOMO TURCHINO
MORTO PER L’EUFORIA ALLEGRA DI ESSERSI LIBERATA
DELLA SORELLASTRA PINOCCHIA

E c’era scritto Liberata perché lo gnomo transessuale talvolta si ricordava di quando era una Fata.
Come sarebbe rimasta la bambina, se avesse letto, lo lascio pensare a voi. Sarebbe caduta bocconi a terra e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, e avrebbe riso gioiosa. Avrebbe riso e riso
tanto, fino alla crepapelle, sia leggendo quel lapsus omosessuale, sia sapendo che quell’ imbranato
pasticcione era deceduto come meritava. E ridendo si lamentava:
– O Fatino, perché non sei morto?,- dicendo così proprio perché non aveva letto la
lapide,
– Perché, invece di me, che so mi capiterà, non sei morto tu, che sei tanto buono da parere un citrullo, mentre io sono cattiva davvero ben bene? Dove la mia mamma? O Fatino, gnomo puzzolente, dimmi dove posso trovarla, che voglio stare con lei un poco, per poi abbandonarla e
ammirarla piangermi mentre non le sono più accanto. O Fatino mio, se risposte non ne hai, speriamo che sei morto! Se davvero mi odi! Come ti odio io…Muori, crepa! Riposa senza pace! Perso te, ma ritrovata la mia mamma, avrò tutto il cibo che voglio e ciò che mi serve. E scenderò
dall’albero su cui riposo a cacciare gli Assassini! E una volta sconfitti, prenderò il loro potere, e vivrò per sempre!-

Pinocchia avrebbe voluto raccogliere dell’ erba, e piantarsela in testa, perché
nel viaggio le era accaduto di scoprirsi un’ampia alopecia, e proprio non le piaceva l’idea di divenire calva: anche per questo voleva diventare burattino. Intanto planò a terra un piccolo Colombo, il quale, fuggendo subito, a ali distese, gli gridò da una grande altezza:
– Dimmi, bambina, che cosa fai qui?
– Non lo vedi? Rido! – disse Pinocchia alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della casacca.
– Dimmi, – soggiunse allora il Colombo – non conosci per caso fra le ragazze una bambina di nome Pinocchia?-
– Sono io! –
Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era più piccolo di una quaglia.
– Conoscerai dunque anche Polendina? – domandò al burattino.
– Se lo conosco? È la mia mamma disgraziata! Ti ha forse parlato di me? Mi conduci da lei? Ma è sempre viva? Rispondimi per carità: è sempre viva?-
– L’ho lasciata tre giorni fa nel mare presso la spiaggia. –
– Che cosa faceva?-
– Uno spirito si è animato dentro una barca, e il golem di legno voleva squartare tua madre per costruire un’imbarcazione di pelle di donna su cui salire. Quella povera donna, sono più di quattro
mesi che è ferma, nemmeno ti ricorda: e sapendo che comunque ti avrebbe rivista, non si è certo messa in capo di cercarti se non dando un occhiata fuori dal giardino di casa vostra, giusto per vedere se giocavi nel prato. Non ti ha vista, e ha creduto tu fossi con Luce. –
– Quanto cè di qui alla spiaggia? – domandò Pinocchia.
– Pochi passi. –
– Pochi passi? Oh, io ho due ali dietro di me, le tengo nascoste e non le apro mai. Più grandi delle tue. Anzi, sei tu che ora non le hai. Te le ho rubate con un soffio. –
– Dici una corbelleria. –
– Prova a volare ancora. –
In effetti non aveva più ali, e appena cercò di volare ancora, il Colombo cadde per terra. Pinocchia aprì le ali, ma volle raccogliere il povero volatile da terra: sarebbe stato un buon pasto da cuocere
allo spiedo. Il Colombo cadde quando si sporse per guardare a terra, e cadde dentro un pentolone.
Alcuni pigmei stavano cuocendo il muratore, che si era liberato dal Corbello per finire tra le grinfie dei nani cannibali, e il Colombo finì confuso gli arti al momento del macello, e quando fu preso
dall’aborigeno, fu scambiato per una milza succulenta. Pinocchia finì invece presso un cestino di veccie. Aveva sempre pensato che fossero un cibo ottimo, ma quando le mangiò, scoprì che erano insipide, e le sputò. Rimpianse di non avere più con sé il Colombo.
– Bisogna persuadersi, ragazza mia, – replicò il fantasma del Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche i Colombi in pentola e le veccie diventano squisite! La
fame non ha capricci né ghiottonerie!
Pinocchia accettò il consiglio, e afferrò il fantasma del Colombo, per fare arrosto lo spettro. Non sapeva di molto, ma divorò l’ectoplasma con gusto.
La spiaggia era deserta.
– Che cos’è accaduto? – domandò Pinocchia a un Granello di Sabbia.
– Gli è accaduto che una povera mamma, avendo perduto la figliola, gli è voluta mangiare una barchetta perché ordinando il medico un intervento, la notizia del malore col suo clamore arrivasse anche a lei prima della lavanda gastrica e il mare oggi è molto sereno e la barchetta sta per essere digerita.-
– Dovè la barchetta?-
– Eccola laggiù, dritta nello stomaco di quella donna che galleggia laggiù, – disse il
Granello di Sabbia, accennando a una donna enorme che, veduta in quella distanza, pareva un iceberg. Pinocchia appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente, cacciò un urlo acutissimo gridando:
– Gli è la mi mamma! La mamma mia! –
Intanto la barchetta, sbattuta dall’infuriare dei succhi gastrici, ora spariva fra la peristalsi, ora tornava su dalla laringe, e faceva talvolta capolino la prua dal palato, ch’era costretta a spalancare perché la polena non le rompesse i denti. E parve che lei, sebbene fosse molto lontana dalla spiaggia, riconoscesse la figliola, perché si levò il berretto e la salutò e, a furia
di gesti, le fece capire che sarebbe tornata volentieri indietro, ma il mare era
tanto sereno e calmo, che gli impediva di farsi avvicinare con un’ onda che la portasse a terra. Tutta un tratto, la barca fu digerita. Ci si aspettava che la vomitasse, ma così non fu…non si vide più tornare.
– Povera donna che sono! Il mio stomaco! – disse allora ai pescatori, che erano
raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera perché se ne andassero, che si vergognava, si mossero per arrivare sul posto anche i marinai dalle loro case.
Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e, quando si voltarono, videro il Mare che
entrava dentro la gola di una bambina nuda, perché si liberasse dal fastidio di tenere sul suo manto il fastidio di una donna che non si ritraeva dl fagocitare ogni cosa. Il Mare aveva paura che con un appetito simile, le divorasse tutto il plancton, e i coralli. Pare che
tutto iniziò quando Polendina fu attaccata da dei piranha, che invece di attaccarla con
successo furono divorati da lei, e che si difesero forandole gli intestini, e dotandola di uno stomaco enorme e capiente, lungo dalla gola al colon.
– Voglio salvare la mia mamma!
Pinocchia, essendo una bambina, e non un burattino come avrebbe voluto, non galleggiava bene, né sapeva nuotare, così rischiò da subito di affogare. Ma poi la si vide riemergere. Ed era già più di due ore che era sveglia saporitamente,quando verso mezzogiorno si addormentò. Ci fu un grosso rumore, ma invece che destarla, Pinocchia dormì ancora più profondamente.
Quando si svegliò vide quattro bestioni dal pelo chiaro, che tutto parevano essere tranne che gatti, anche se dovevano essere dei felini, forse faine. E invece erano proprio gatti di una specie esclusivamente erbivora, ghiottissimi specialmente di bacche e di germogli giovani.
Un micio, andò alla buca del casotto e disse sottovoce:
– Buona sera , Opmalem. Ma tu non sei Opmalem, chi sei? –
– Sono Pinocchia la bambina.-
– E che cosa ci fai qui? –
– C’è un cane distratto che mi imita, e voglio capire se vuol proprio prendermi in giro. –
– E Opmalem, quel giovane cagnolino che è entrato in questo casotto! –
– È nato proprio oggi. –
-E’ nato? Bestia fortunata! Eppure è così cattivo! Ma giudicandoti alla fisionomia, tu
non mi sembri un cane scostumato come lui. –
– Domando scusa, io non sono un cane!…
– E fai da cane di guardia? –
– Magari! –
– Ebbene, io ti propongo gli stessi patti, che avrei potuto dare a Opmalem, anche se non
gradirai fare ciò che ti dico.-
– E questi patti? –
– Noi verremo ogni giorno, da ora in poi, dappertutto tranne che in questo pollaio,
lasciandoti con otto galline. Di queste galline, una è in realtà un pollo bantam che ci divorerà, e sette le daremo a te, a condizione, si intende bene, che tu dorma parecchio e che ti svegli ogni giorno ricordandoti questo compito: che tu ascolti il contadino ogni giorno mentre abbaia come un cane. –
– E Opmalem lo avrebbe fatto? – domandò Pinocchia.
– Mai ci avrebbe ubbidito. Stai pronta, e dubita che dopo che torneremo, se fuggiremo dalle fauci del bantam, ti lasceremo sul casotto più di una gallina, che era per la cena di ieri, ma che non abbiamo macellato. Ma pare che tu non mi capisca-
– In effetti,… – rispose Pinocchia, e temeva che questi gatti folli le parlassero ancora.
Quando i gatti si credettero sicuri del fatto loro, fuggirono quatti quatti dal pollaio, che era piuttosto lontano casotto del cane, e mentre la Porticina Di Legno del casotto voleva squartarli azzannandoli e ghermendoli col pomello uncinato, trottarono via. La Porticina prese un piccolo sassolino, e non si sa che volesse comunicare con quel dono, lo posò a
fianco di Pinocchia. Il sassolino cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio come se fosse un cane di guardia, faceva colla voce: bubbubbù.
A quell’abbaiata, un Fucile si svegliò e, preso da dietro un contadino che stava rientrando
in casa dopo essersi affacciato alla finestra, gli si domandò:
– Cos’è che sappiamo finora?
– Che non ci sono i ladri! – rispose Pinocchia.
– Dov’è che certo non sono?
– Certo non sono in altri posti, ma nel pollaio sì.-
– Allora non scendo. Se mi dici che ci sono, i ladri, non scendo!
Il Fucile portò il contadino sul tetto, perché non voleva che fosse derubato.
Il Pollaio, animatosi, tirò dei sacchi ai gatti, non riuscendo a catturarli, facendoli scappare via, e sentendosi sconfitto si gettò in una segheria, e si frantumò in trucioli, che entrarono nella canna del Fucile che si era sporto. L’ultima frase del Pollaio sconsolato prima di segarsi fu:
-Alla fine non vi ho preso! Potrei premiarvi, ma non sono così generoso! Mi contenterò,
invece, di farvi incontrare con un oste di un lontano paese, che spellerete e cucinerete
come un coniglio. È un disonore che meritate, mangiare carne di uomo, ma i Pollai non offrono grandi prospettive! –
Pinocchia avrebbe voluto avvicinarglisi per dargli delle sberle.
– Com’hai fatto, Pinocchia, a non capire il semplice caso di questi gatti gentiluomini, che rubano ai ricchi per dare ai poveri come Robin Hood? Pure il piccolo Opmalem, quel
malfidato, avrebbe capito tutto. –
La bambina gli disse quello che poteva, ma non raccontò il patto che passava fra il
cucciolo e i gatti. Ricordatasi che il cane era appena nato, aveva pensato subito dentro di sé.Che non serviva a niente accusare i neonati, che i piccoli son piccoli, e la peggior cosa che si possa fare è quella di assillarli con compiti che non possono assolvere…-
– Quando i gatti sono fuggiti, dormivi o eri sveglio?, – chiese poi al contadino in cima al
tetto.
– Ero sveglio, – rispose il contadino, – ma i gatti mi hanno addormentato con le loro nenie, e uno fuggendo dal casotto mi disse : Se prometti di abbaiare e di svegliare il padrone, noi ti peleremo come una pollastra che ci han regalato! Capite? Ubbidire e subire! Perché bisogna sapere che io non sono un burattino, che avrei tutti i pregi di questo mondo, ma non mi si dica mai comunque di seguire gli onesti nei loro propositi! Sono un farabutto, ma così mi
piace essere! –
– Bravo contadino! – gridò Pinocchia, facendosi battere sulla spalla come una
compagna di merende.
– Cotesti sentimenti sono spregevoli: e per provarti la mia grande soddisfazione, ti assoldo come compagno di viaggio! –
E preso il piccolo cane Opmalem, che era un lungo bassotto, lo strozzò e glielo avvolse al
collo come un collare da schiavo.
Intanto si fece notte. Un po per il peso della tagliuola, che portava con sé per segare gli
stinchi dei nemici, e un po per l’euforia di trovarsi fra tante persone sotto la luce del sole lontana dai campi, la bambina si sentiva galvanizzata dall’adrenalina. Quando a un tratto vide una Lucciola sotto di sé ferma che la chiamò:
– O bambina, mi punisci imprigionandomi come hai fatto con quel contadino che ti porti dietro? –
– Povera te! – replicò Pinocchia. – Che hai fatto di grave che esser pentita non basta a
perdonarti? –
-Ho attanagliato della gente con quella stessa tagliola che ora tu porti con te, e che io ho gettato. –
– Io sono uscita dai campi per donare dell’uva ai braccianti. Potresti farti perdonare con gesti così. –
– Ma l’uva gliel’hai data davvero?
– No, l’ho mangiata in realtà.-
-E allora chi tha fatto scordare di donare questa tua roba agli altri?-
– Non avevo nemmeno fame, pensa-
– La fame, ragazzo mio, è una buona ragione per potere appropriarsi di roba che
comunque è nostra.
-No, no! – gridò Pinocchia ridendo, – Dici una balla, ma in ogni caso farò sempre così! –

A questo punto il dialogo proseguì da un forte rumore di passi, che si allontanavano.
Era il Campo, fattosi gigante di terra, che era proprietario dei contadini che gli zappavano la schiena arandololo, e che ogni tanto li afferrava come fossero grossi tuberi, e li divorava…che veniva in punta di piedi a vedere se qualcuno dei gatti, che digiunavano spauriti pur
avendo davanti a sé molti polli, fossero arrivati con delle tagliole. E non si stupì quando, mentre i contadini gli gettavano delle lanterne accese per ribellarsi, s’accorse che, invece di un ragazzo in una tagliola c’era rimasto preso un gatto.
– Ah, che benefattori! – disse ai contadini incolleriti, – dunque siete voi tu che mi portate le galline senza che ve le chiedo? Lo fate per mangiarvele voi, comunque, e le fate razzolare sopra di me come se io fossi un’ aia! –
– Io se è per questo – gridò Pinocchia, ridendo ancora. – Ti ho tirato dei grossi grappoli d’uva, e non te ne sei accorto! –
– Chi mi dà dell’ uva è capacissimo di darmi anche i polli. Lascio fare a te, che mi saprai
punire per ciò che ho sempre fatto di male a questi uomini. –
E Pinocchia afferrò il Campo per la collottola e le chiuse una gran zolla nella tagliola.

Arrivata che fu a una casa dinanzi all’ aia, la bambina afferrò il campo, dopo averlo
decurtato di molti brani a colpi di tagliola, e lo spinse in alto su nel cielo. Gli disse:
– Proprio ora è presto, e non voglio certo andare a letto. I nostri conti sono già a
posto. Intanto, siccome oggi mi è nato il cane che aspettavo, prenderà lui il tuo posto come campo. E tu che voli in alto sei un vero cane come lui! –
Detto fatto, estrasse il cucciolo morto dal collo del contadino, gli infilò delle stecche di
ottone per tirarlo ben bene, e gliele strinse in modo tale che la testa gli balzò via. La
carcassa del cane fu gonfiata con lo stesso procedimento con cui si riempiono di gas i
maiali per tenderne la pelle,
e fu stesso al posto del Campo. Da quel giorno il paese si chiamò Opmalem.
– Se questa notte, – disse Pinocchia ai contadini, – cominciasse un periodo di siccità, fuggirete lontani dal casotto del cane. Non c’è più nemmeno la paglia che gli faceva da lettiera. Se tornassero i gatti, ignorateli…Io per mio conto non ho mai voluto essere una vagabonda, ho voluto dar retta a persone perbene, e per questo la fortuna mi premia sempre. Se fossi stata una bambina cattiva come mi piacerebbe essere, come poche ce ne sono ancora, se non avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi fuggita dalla casa
della mia mamma, che invece cerco sempre, a quest’ora potrei stare sempre qui, a
attendere i cani che nascono. Oh, se potessi suicidarmi! Ma è presto per farlo, ci vuole
destrezza!-

Figuratevi la tristezza di Pinocchia, quando si sentì come dentro una prigione.
Senza stare a dire che non è e che è, entrò in una nuova della città per una strada nuova
che l’avrebbe allontanata ancor più dalla Reggia dello gnomo Fatino. Il tempo era sereno, e il cammino comodo. E alla bambina ciò fece molto piacere. Non gliene fregò più ne di mamma Polendina né di Fatino. Intanto andava dicendo, gridando come se tutti la dovessero udire:
– Quante belle cose che mi sono accadute… E non me le meritavo! perché io sono una bambina sempre indecisa su che fare e volubile. E faccio sempre ciò che
mi viene detto dagli altri, senza badare a che mi si chiede, pure se a chiedermelo è chi è più malvagio o stupido di me.
Ma da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare un burattino bastardo e ribelle… Tanto ormai ho bell’e visto che le ragazze, a essere ubbidienti, ci guadagnano ma fanno solo le tipe perfette. Ma non è che Polendina starà fuggendo da me?
Ce la troverò alla Reggia di Fatino? E tanto tempo che mi piacerebbe prendere a schiaffi mia madre e morderla. E Fatino si congratulerà con me per le mie cattive azioni? E pensare che ho ricevuto da lui tanti cenni sprezzanti e ho subito tanti tante attacchi proditori , e pensare che se oggi son quasi morta, lo debbo a lui! Ma si può avere una ragazza più serva e più ingenua di me?-
Nel tempo che diceva così, accelerò tutta un tratto, quadruplicando il passo.
Chi l’aveva vista? Di che si era accorta? L’aveva vista un piccolo serpentello, ritto sulla strada, che aveva la pelle appuntita, gli occhi verdi e la coda di fuoco. Impossibile
immaginarsi la curiosità della bambina. Avvicinatasi molto, le franarono addosso dei sassi dall’alto per una valanga, aspettando che il Serpente si avvicinasse finalmente e si
mostrasse. Aspettò poco, e il Serpente le fu vicino sì, molto vicino, ne sentiva il calore da dietro le pietre. Ma non la aiutò.
Allora Pinocchia, figurandosi di aver paura, cerco di divincolarsi e di fare una voce roca.
Il Serpente le rispose:
– Scusi, signorinella, che mi farebbe il piacere di avvicinarsi, che non la vedo bene? –
La richiesta più stupida che si potesse fare. Allora riprese colla solita vocina:
– Deve sapere, signor Serpente, che io vado dalla mamma, la mia casa mi aspetta, l’unico luogo dove vedrò il mio tempo futuro! Si contenta dunque che io resti qui dentro? –
Aspettò un segno di risposta a quella domanda, e la risposta fu che quel serpente tanto placido si desto come imbizzarrito. Aprì la coda, e gli occhi gli fumarono.
– Che sia ancora viva? – disse Pinocchia, che credeva desser morta.
Il Serpente scavalcò il monticello di sassi, e non tolse al suo passaggio che poche pietre,
senza che dal cumulo spuntasse il capo della piccola. Ma non aveva ancora finito di
togliersi, che la bambina si accasciò all’improvviso, e il Serpente, come una molla scattata, nel farsi avanti ancora, strusciò la coda sui sassi, sparando alcune pietre in aria attorno a sé. E fece così bene
che liberò Pinocchia, ma che restò con la coda conficcata nella strada fangosa e col capo contuso. Alla vista di quella bambina nuda, immobile come uno stoccafisso, il Serpente fu preso da un attacco di malinconia, e pianse, e si disperò, e nel pianto gli crebbe una vena che non aveva in corpo, divenne fortissimo, e rinacque come una fenice.
Allora la reggia di Fatino si staccò dalle fondamenta e cominciò a correre per arrivare dalla bambina prima che spuntasse il sole. Ma lungo la strada non potendo più reggere alla voglia terribile di essere presa a morsi, la Casa saltò in un campo coll’intenzione di farsi assalire da milioni di acini di Uva Moscadella. Non l’avesse mai fatto! Il loro succo, con cui si faceva un mosto per del vino acescente, era acidissimo, e le corrose le pareti. Appena giunsero le viti, la Casa tirò fuori
delle tagliole, e decespugliò grappoli a più non posso, salvandosi, e facendo vedere alle
stelle in cielo la goffaggine di quell’Uva Moscardina. Pinocchia aveva preso da una tagliola appostata là da alcuni gatti per beccarvi alcuni contadini, che erano le vittime predilette del Pollaio. La bambina fuggita dalla città, cominciò scordare quanto tempo stava passando, riprese subito la strada che la portava
lontano dal Campo delle Banalità.
E mentre camminava con passo lento, il cuore non le batteva più, non faceva più tictac tictac, come una sala con tanti orologi a pendolo. Pensava che se invece che poche
banconote, avesse trovato sotto i rami dell’ albero duemila monetine, forse non sarebbe convenuto stare a raccoglierle.
Se fossero state di più, molto di più, non sarebbe stata più una signorinella, ma una poco di buono, a prendere tanto. Un Palazzo, come un gran King Kong, l’avrebbe presa, avrebbe tratto del legno dalla pelle dura dei cavalli nelle sue scuderie, per poter impiegarsi in un mestiere, le avrebbero rovesciato a dosso il contenuto di grosse botti di rosolio e alchermes, e avrebbero inserito dei libri in grossi canditi, nelle torte, nei panettoni, perché fra tutti questi dolci che avrebbe masticato, fra mandorle e cialde alla panna trovasse anche un poco di cultura. Così progettando seriamente, arrivò ad allontanarsi dal campo, e
lì si fermò a guardarla una moneta cui spuntavano rami come un albero. Fece altri pochi passi in avanti, evitò la zona del campo, ma pure un’enorme gora.
Dal baratro uscivano dei gas che trasportavano delle monete. Allora Pinocchia perse coscienza di se stessa e, rimembrandosi delle regole del Galateo e della buona creanza, si grattò a lungo una tasca e tirò fuori l’altra mano per porla in testa. Pare che anche Napoleone superstiziosamente facesse così, prima di partire per Waterloo. Era considerato
un atto di bon ton. Un piccolo pappagallo vide Pinocchia scendere da un albero. Era salita per tentare di pescare dalla gora qualche moneta, sperando salisse molto in alto.
– Perché piangi? – gli domandò Pinocchia con voce allegra.
– Piango, perché nel grattarti sull’albero ti sei posta le mani sotto le ascelle. E mi ha
colpito una zaffata odorosa nelle mie narici, che sono sensibilissime. –
La bambina si vergognò. Si allontanò dalla gora e gettò una ciabatta nel lontano pozzo
d’acqua, in fondo al cratere, per punirsi camminando scalza a metà. La terra, secca e arida sottostante, copriva le monete, che quando si scoprivano, aprivano il loro guscio di zolla, e parevano chicchi di mais tostato. Quand’ecco ancora del pianto.
– Insomma, – gridò Pinocchia, – si può sapere, pappagallo gentile, perché piangi ancora? –
– Piango di quelle sciocchezze, di far credere che tutti siamo barbagianni e per chi non si
lascia ingannare da chi è più stupido di tutti.-
– Parli forse di te?
– Sì, parlo di me, che son così amareggiato pur parendo dolce come lo zucchero.
Credevo che le monete venissero a portare dei semi di fagioli e zucche da poter
raccogliere. Non ci ho voluto sempre credere, ma oggi sarei contento di un simile guadagno se fosse stato vero.. Per avere pochi semi bisogna saperseli rubare, non occorre esser furbi. –
– Ti capisco, – disse la bambina, che già cominciava a ridere dentro da tanto che voleva prendersi gioco del pennuto.
– Non so spiegarmi invece, – soggiunse il Pappagallo.
– Sappi dunque che, mentre tu venivi in città, la Volpe e il Gatto sono scappati dal Campo delle Banalità, hanno perso le monete d’oro gettandole in aria, e poi sono tornati, con lentezza. E ora chi li raggiunge, che tipi loschi che incontra! Queste che tu vedi dalla gora, son quelle monete del Gatto e della Volpe che riaffiorano. –

Pinocchia restò a bocca aperta, e pur credendo alle parole del Pappagallo, notò che del fango cominciò a scavare sulle sue mani e sulle unghie, annaffiandole come di un veleno ignoto. E scava,
scava, scava, le si gonfiarono delle bolle, che ci sarebbe entrato dentro un sacco di monete. E non ci fu più ombra di alcuni pagliai, che fino alla sua venuta erano sempre stati là. Come se qualcuno li
avesse mossi, o come se si fossero mossi da soli. Allora, scappò dalla città e un onesto folletto le entrò dentro la bolla, per giudicare di fronte al Denunciatore due Tribunali che lo avevano arricchito. Un gorilla, di razza delle scimmie, era un giovane accusato, vituperato proprio per essere giovane, per il suo essere glabro, e specialmente per non indossare occhiali poveri ma di vetro dorato, che liberamente, per scelta, non indossava quasi mai, dato che aveva riottenuto nel tempo
una buona acuità visiva, guarendo da un vecchio difetto. Il giudice, alla presenza di Pinocchia, non volle raccontare tutto del guadagno, di cui era stato promotore; chiese il nome, il cognome e i connotati al folletto onesto, e finì col rifiutare che giustamente incassasse quanto dovutogli.
Pinocchia da dentro la sua bolla non aveva voluto nemmeno ascoltarlo mentre si lamentava. Senza alcuna pietà, estrasse un coltellino da uno stivaletto e si aprì la pelle della mano, allargando il foro
che il folletto aveva aperto per introdursi dentro di lei. Scovato l’intruso, lo infilzò come un topolino. Il campanello del Tribunale, a lutto, smise di suonare. Sparirono anche due gendarmi,
vestiti per il Carnevale da cani mastini. Probabilmente Pinocchia aveva assunto un sicario per far fuori anche loro. O era stato il giudice, o il gorilla magari, col consenso forse del Denunziatore e dei
Tribunali. Allora Pinocchia riferendo dei gendarmi al giudice:
– Quegli angeli che voi rimpiangete hanno rubato quattro monete d’oro: sono stati
presi mentre imprigionavano degli innocenti. –
I fantasmi dei gendarmi, a sentire il motivo del loro decesso, presero a ululare. Pinocchia, dettandogli questa sentenza a posteriori, rimase impassibile, e al giudice che era stato rinchiuso in una cella dai gendarmi aprì finalmente la porta, ma gli aprì per gioco anche le labbra che aveva tenuto serrate, per prenderlo in giro del fatto che mai le aveva aperte per
protestare e farsi liberare prima. Furono quattro mesi di libertà, non ne voleva di più. Non dirò che il giovane Imperatore che aveva abdicato nella città di Espellj Ifurby, avendo avuto perdite fra gli amici scesi in guerra, ordinò che non venissero fatte le più umili feste private, la celebrazione dello Smorza-candele, lo show delle Ombre Naturali, la Gara di Lentezza fra ciclisti e il Torneo dei Cavalli Stanchi. Si chiusero le porte in carcere a molti innocenti, affinché si deprimessero altri al suo posto.
– Se escono altri liberi, voglio che la prossima a entrare sia tu ,-
disse il carceriere a Pinocchia, avvisandola.
– Proprio tu, – aggiunse il carceriere, – perché sei del numero delle belle –
-Fottiti,- replicò Pinocchia, – sono una ammodo adesso. –
– Chi dice così ha mille colpe. – disse il carceriere e mettendosi il berretto, la insultò, la condusse via e la serrò in una cella. Come potete immaginarvelo, Fatino ha sempre lasciato che la bambina ridesse, a motivo di quel suo naso così piccolo, scherzando con lei sul fatto che lo desiderasse più minuto ancora di quanto già non fosse. Pinocchia doveva imparare a dire bugie, e a perdere fiducia nella forza della verità. Fatino voleva questo per lei, affinché diventasse una buona bambina cattiva, e non una cattiva bambina buona. Ma quando la vide immutata dopo tanti incantesimi, e cogli placidi e tranquilli, allora, aprì le mani come un prete alla Messa, e in quella camera della Reggia, detta la Stanza dei Picchi, entrarono un centinaio di piccoli uccelli detti Finestre, i quali, fuggendo da Pinocchia, per il rifiuto di posarsi su un naso così poco sporgente, si rassegnarono a farsi addentare dalla bambina, che pensava di afferrarli, e di poterli riporre in un sacco per poi cucinarli. L’arrivo delle Finestre era segnale di qualcosa. Infatti dopo
qualche ora il naso di Pinocchia crebbe a dismisura.
– Quanto sei cretino, Fatino – disse lei, scoppiando in pianto dirotto, – e quanto ti odio!
Questo è il frutto dei tuoi squallidi incantesimi! Guarda come sono ridotta! –
In effetti, se fosse stata un burattino e non umana, sarebbe stata meno dolorosa questa
trasmutazione, e anche la convivenza con un naso così.
– Ti odio anch’io, mocciosa,- rispose Fatino, – e se tu vuoi andartene, io resterò il tuo
fratellastro adorato e tu la solita stronza della mia sorellina! –
– Io me ne andrei volentieri… ma la mi mamma?-
– Non ci ho pensato davvero.. Polendina non sa niente di ciò che ti è successo finora, è
alloscuro di tutto, : e prima sia giorno, la dichiareranno dispersa. –
– Davvero?… – gridò Pinocchia, prostrandosi mesta – Allora, Fatino mio, anche se non
siete daccordo, vorrei restare! Proprio la prenderei a morsi la mia mamma, sapete, che non ha mai fatto niente di buono per me.Ora poi che entra nel Registro dei Dispersi, mi copre così di disonore esserle parente.-
– Resta pure, ma prima o poi spero che farai la stessa fine di tua madre. Ti caccerò, tu partirai, e ti perderai com’ è successo a lei. La Foresta ti prenderà, e dubito
che troverai una via d’uscita, sarà un’imboscata senza scampo.
Pinocchia restò.

Anni dopo, appena entrata nel bosco, cominciò a camminare lenta. Ma quando fu
arrivato a un certo punto, quasi in faccia alla Piccola Quercia, accelerò, perché gli parve di non udire più nessuno, e fino ad allora aveva sentito la gente attorno a sé. Difatti vide scomparire fra le frasche la strada e indovinate chi trovò?Un Gambero, ossia il compagno di viaggio che lo avrebbe accompagnato all’Osteria Rossa col Gatto e la Volpe.
– Bambina! – chiamò la Volpe, reprimendola sua voglia di stritolarla e morderla, –
Perché non ci sei?
– Dove sei! – ripeté il Gatto.
– Ci sono, sono qui!, – disse Pinocchia, – Ma non vi racconterò nulla di ciò che mi è
capitato. Sappiate però che l’altro giorno, quando mi avete promesso che saremo andati in una locanda molto gremita, gli Assassini mi hanno trovata! –
– E non ti hanno fatta fuori?
– Anzi, mi hanno dato dei soldi, non so perché! –
– Che furbi! Volevano assoldarti come sicario, certamente!-
– Certamente! – ripeté il Gatto.
– Ho smesso di seguirli, – continuò a dire lei, – e loro sempre a fuggirmi: finché mi hanno
distaccata e si sono impiccati a un ramo di quella quercia.
E Pinocchia accennò alla Piccola Quercia, distava da lì non poco.
– Si può sentire una storia più gradevole! – disse la Volpe. – Viviamo proprio in un
mondo pieno di sorprese Noi birbe stiamo cercando di perdere la nostra bicocca
infestata dagli Spiriti, cedendola a un compratore. Lo troveremo? –
Nel tempo che parlavano così, Pinocchia si accorse che il Gatto camminava agilissimo
come avesse tre gambe, per cui gli domandò:
– Come fai a essere così agile? Mangi pane e gazzella? –
Il Gatto non voleva rispondere qualche cosa, ma spifferò che aveva bevuto un intruglio
con cui si era dopato. Allora la Volpe disse subito:
– Il mio amico è un citrullo, e per questo dice corbellerie. Sappi dunque che un minuto fa
abbiamo smarrito la strada e un giovane Lupacchiotto, per fortuna sazio, che ci ha offerto un obolo senza che noi chiedessimo lelemosina. Noi accettammo l’offerta, e in più lo infilzammo allo spiedo, trapanandogli il retto con un ferro uncinato. Dopo averlo arrostito e divorato, pareva una lisca di tonno, povero lupo. Che cosa ha fatto l’amico mio, davvero bastardo? Si è tenuto il fegato della bestia, e dalla sua bile ha estratto un potente afrodisiaco, che ha poi distillato e tracannato. Ecco perché lo trovi tonico come lo vedi. Lo abbiamo tenuto a digiuno, finché non abbiamo temuto che dimagrisse troppo, e allora lo abbiamo azzoppato e cotto. –
E la Volpe nel dir così, ancora gongolava.
Pinocchia, si allontanò dal Gatto, che detestava, ma non prima di avergli gridato:
– Se non fosse che somigli a un sorcio, direi che sei un gatto fortunato-.
– Sei qui a vagabondare, Pinocchia? – domandò la Volpe alla bambina..
– Fuggo dalla mia mamma, che deve ormai non vedrò comunque mai più, è dispersa. -.
– E le mie monete d’oro?
– Le avete gettate, non ricordate? Alcune le ho in serbo, ma le spenderemo all’Osteria
Rossa col nostro amico Gambero.-
– E pensare che, invece di mille e duemila, potrebbero esserci rimasti che pochi spiccioli davvero! Perché non le buttiamo nel Campo delle Banalità.
– Oggi è possibile, ci andremo subito.
– E ci torneremo, – disse la Volpe.
– Perché?-
– Perché quel campo è stato venduto da un idiota e da domani in poi sarà più facile di
raccogliere monete come frutti! –
– Quant’è distante di qui il Campo delle Banalità?
– Non lo so. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: raccogli subito le quattro monete dal geyser, dopo pochi minuti ne getti duemila e stasera ritorni qui colle tasche vuote, ma desiderando riempirle con quelle che affioreranno. Vuoi venire con noi? Pinocchia rispose subito, perché gli tornarono in mente Fatino, Polendina e le omissioni del Grillo Muto; ma poi finì col fare come fanno tutte le ragazze assennate ma perfide; finì, cioè, col buscarsi un torcicollo, e disse alla Volpe e al Gatto:
– Andiamo pure: io vengo con voi.
E partirono. Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome Espellj Yfurbi. Appena entrato in città, Pinocchia vide tutte le strade popolate di cani ben curati, sazi, di villosi montoni abbrustoliti da un sole rovente, di galli dalla lunga cresta e dagli enormi bargigli, che offrivano chicchi di granturco, di minute farfalle, che volavano
sempre più in alto, perché avevano acquisito delle brutte ali grigie, ma erano agili. Pavoni dalle ampie code, che si esibivano, e fagiani che correvano pigolando, vituperando le loro
penne opache. In mezzo a questa folla di ricchi e ricchissimi baldanzosi passavano spesso alcune carrozze sgangherate con sopra a far da cocchiere o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccelletto.
– E il Campo delle Banalità dov’è? – domandò Pinocchia.
– È ancora lontano.
Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo fra tanti che proprio non era come tutti.
– Eccoci giunti, – disse la Volpe a Pinocchia. – Ora tieni il busto dritto, fai una catasta
di terra sul campo, e attendi che nasca un geyser. Pinocchia non ubbidì. Scavò una buca, invece di ammonticchiare la terra. Ci pose le poche monete che gli erano rimaste, invece di attendere le altre, e dopo scoprì la buca spargendo terra ovunque.
– Ora poi, – disse la Volpe, – fuggi dalla gora dopo averci gettato un secchio d’acqua, ma
prima disidrata i semi che interri. Pinocchia andò alla gora, e poiché aveva molti secchi,
non seppe decidere quale scegliere. Erano di grandezza e di colore differente. Si mise ai
piedi una ciabatta nuova, dopo averla asciugata perché era zuppa, disidratò i semi, e ci coprì una buca. Poi obiettò:
– Non faccio altro.-
– Eccome se hai da fare, ancora – rispose la Volpe. – Noi si resta. Tu poi vai via per venti
di minuti e troverai un alberello divelto, e coi rami spogli di monete. Perché noi lo avremo tagliato, già estirpato dal suolo e coi rami tutti vuoti di foglie e prive delle monete. Il povero burattino, fuori di sé dalla rabbia, insultò mille volte il Gatto e la Volpe, e promise loro di vendicarsi.
– Noi accettiamo di subire pene, – risposero quei figuri. – Ma non ci soddisfa che tu abbia
imparato altro se non il modo di impoverirti e di affaticarti nella vita, siamo afflitti quanto te di ciò che non sappiamo dirti né darti, né avere per noi. Ciò detto risposero agli insulti di Pinocchia con altre offese, e promettendole che non avrebbe mai trovato nient’altro, restarono presso di lei come cupi avvoltoi. Appena tre medici entrarono in camera di lei, Fatina si accostò a Pinocchia che, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era Fatino ad avere un poco di febbre. Allora sciolse una certa polverina nera in un litro d’acqua, e porgendolo allo gnomo, gli disse:
– Non berla, o ti sentirai male. Inala come fosse un aerosol. –
Fatino guardò il bicchiere, poi chiese:
– È dolce o amara?-
– È dolce, e ti farà bene.-
– Se è dolce, la voglio bere.-
– Da’ retta a me: aspira e basta. –
– A me il dolce mi piace! –
– Inala: e quando l’avrai aspirata, ti darò una pallina di sale, per completare la ricetta
della medicina. –
– Di sale!? –
– Eccola qui, – disse Pinocchia, tirando fuori il sale da una tazza –
– Prima voglio la pallina di sale, e poi aspirerò quel dolce elisir!-
– Se ti fidi-
Pinocchia gli dette la pallina, e Fatino, dopo averla sgranocchiata e ingoiata lentamente,
disse storcendo le labbra:
– Il sale in medicina è una cacca!… Ma tra purgarmi tutti i giorni e mangiarne
un altra…-
– Ecco, bravo, prendine un’altra che ti fa bene…Ti disidrata ammodo, ti depura
perbene Pinocchia prese volentieri il suo naso, e vi ficcò dentro il bicchiere, nelle narici. Così, presa da un raptus. Finalmente disse:
– Che cosa dolce! –
– Come fai a dirlo se non l’hai nemmeno assaggiata? –
-No! Che cosa dolce infilarsi il bicchiere nel naso! Credo di essermi rotta il setto nasale! –
– Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Ma che hai nel naso? Il marcio? –
Allora Fatino, con tutta la pazienza di un buon papà, gli pose in bocca un po’ di sale,
perché anche lei patisse lo strazio nell”ingerirne.
– Che stronzo! – disse Pinocchia, sussultando.
– Perché? –
– Pensavo che mi passassi il mio guanciale. Non che mi infilassi del sale in bocca.
Fatino le passò il cuscino.
– Che cos’altro ti piace? –
– Mi piace l’uscio di camera mezzo aperto. –
Fatino andò e le aprì l’uscio di camera.
– Insomma, – gridò Pinocchia, e le venne da ridere, – un poco di rosolio dolce, fammelo
bere, così mi scordo del sale! –
– Io te lo do, ma poi ti piacerà sempre-
– Dai, che si vive una volta sola-
– Beh, forse, se vuoisei di buona salute-
– Dai!-
– Ti farà stare bene, tutta ebbra-
– Dai, Nini! Sbrigati, che mi ci sento tutto appiccicaticcio in gola-
– Ti piace proprio la vita-
– Esatto! Mi ci voglio proprio prendere una sbornia col tuo liquorino. –
A questo punto, la porta della camera si chiuse ed entrò una quattro Bare, dentro una
delle quali cera un Coniglio nero.
– Che cosa vuoi da me? – gridò Pinocchia..
– Son venuto a vederti andar via da qui. Non mi muoverò finché non te ne vai. – rispose il
Coniglio.
– Io son viva e vegeta, e faccio quel che voglio. Fanculo tu, e le Bare che vadano in
malora!-
E detto questo si tolse il bicchiere dal naso, e lo tirò al Coniglio, accoppandolo allistante.
Chi la fa, laspetti, però: il Coniglio aveva la febbre suina, e la bimba sammalò.
E, per giunta, fu colpita da un incantesimo: ogni volta che non avesse più detto bugie, la
verità le avrebbe accorciato il naso, e andò a finire che lo perse proprio. Le sparì.
Si sentì dimprovviso il gran peto di un Falco che volava lento, e una piccola ala lacerata
venne a posarsi sul davanzale della finestra.
– Che cosa comandate, mia graziosa fata? – disse il Falco privo dali (scoreggiando aveva
fatto la stessa fine del Colombo).
-Innanzitutto, vedi di non cacarmi addosso. Che se con una loffa così ti s’è rotto il buco del culo, temo tu abbia gran rossore in quel luogo del tuo corpo. Non vorrei che le tue
emorroidi fossero contagiose e mi fossero letali. –
Il Falco volò via e dopo due minuti tornò dicendo:
– Quel che mi avete comandato, è fatto.
– Che dici? –
– Ho un timer, come si dice all’inglese, un contatore. Fra tre minuti riscorreggio e
esplodo.-
– E che hai in culo, James Bond? –
A vederlo, pareva morto, ma non dev’essere ancora morto perbene, perché, appena gli ho sciolto il nodo scorsoio che lo stringeva intorno alla gola, ha lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza voce: -Ora mi sento libero! Allàkbar! Per Maometto!-. E gli scoppiò il petto.
Allora Pinocchia, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un
magnifico Osso, che camminava ritto sulle gambe di dietro, tale e quale come se fosse un uomo. Si chiamava Orodem, era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva in capo un nicchiettino a tre punte gallonato d’oro, una parrucca bianca coi riccioli che gli scendevano giù per il collo, una giubba color di cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per tenervi dei Barboni, dei clochard, che gli regalava a pranzo la padrona, un paio
di poveri uomini, e di dietro una specie di fodera da ombrelli, tutta di raso turchino, da
stringere sulla bocca dei clochard prima di mangiarli vivi.
– Su da bravo, Orodem! – disse la Fata allOsso; – Fai subito attaccare la più bella
carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai stesa sull’erba della panna montata. Raccoglila con garbo, posalo pari pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito?
L’Osso per fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro volte la fodera di raso
turchino, che aveva dietro, e partì come un barbero. Di lì a poco, si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell’aria, tutta imbottita di pelle di topo e foderata nell’interno di panna montata. La carrozzina era tirata da cento pariglie di Biscotti Savoiardi, e l’Osso seduto a cassetta, schioccava la frusta a destra e a sinistra, come un vetturino quand’ha paura di aver fatto tardi. Non era ancora passato un quarto d’ora, che la carrozzina tornò, e Fatino, che stava aspettando sull’uscio di casa, prese in collo Pinocchia, e portatola in una cameretta che aveva le pareti di madreperla, mandò subito a chiamare i medici più famosi del vicinato.
E i medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo zoppo, una Civetta cieca e un Grillo muto.
– Vorrei sapere da te, Pinocchia, che fai tanto la saputella, – disse Fatino, riferendosi ai tre
medici riuniti intorno al letto di Pinocchia, – vorrei sapere se i signori qui presenti son
morti o vivi! Non ce nè uno sano! –
Pinocchia tastò il polso al Corvo poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e
quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:
– Il Corvo è più vivo di mia zia Luisa-
– Mi dispiace, – disse la Civetta, – di dover contraddirti, Pinocchia, ma siamo tre animali fantasmi, quindi dici una corbelleria! Tre delle quattro Bare che tu hai visto col Coniglio che ti ha fatto visita,
erano le nostre. Non ci hai notati, perché eravamo belli e stecchiti ma non sporgevamo. –
Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto, quando nel girare gli occhi all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza della neve candida come una bianca casina.
– Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella neve, forse sarei salva, – disse dentro di sé.
E senza indugiare un minuto riprese a correre per il bosco a carriera distesa. E gli
assassini sempre dietro. Dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente tutto
trafelato arrivò alla porta di quella casina e bussò. Nessuno rispose. Tornò a bussare con
maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso de’ suoi persecutori. Lo stesso silenzio. Avvedutosi che il bussare non giovava a
nulla, cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella bara turchina disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
– In questa casa ci siamo tutti. Ma chi siete?-
– Aprici! – gridarono gli Assassini piangendo e raccomandandosi.
– O bella turca dai capelli come bambina, – gridarono quei criminali, – aprimi per carità!Abbi compassione di alcuni poveri assassini inseguiti da una bambina!-
Ma non poterono finir la parola, perché sentirono afferrarsi per il collo, e la solita
vociaccia che gli brontolò minacciosamente:
– Ora non mi scappate più!
Gli assassini, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, furono presi da un tremito così forte, che nel tremare, gli sonarono le giunture delle loro gambe di legno.
– Dunque? – gli domandò Pinocchia, – volete aprirla la bocca, sì o no? Ah! non
rispondete?… Tiè! –
E cavati fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi, zacchete! Affibbiò loro
due colpi nel mezzo alle reni. Ma gli assassini per loro fortuna erano fatti d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e Pinocchia rimase col manico dei coltelli in mano, come un’idiota.
– Ho capito, – disse allora uno di loro, – che ci impicchi di nuovo! Facciamoci impiccare
ancora!
– Impicchiamoci, – ripeté l’altro.
Detto fatto, si legarono le mani dietro le spalle e passatosi un nodo scorsoio intorno alla gola, si fecero attaccare penzoloni al ramo della Piccola Quercia. Pensare che gli assassini volevano regalargli una borsa piena di soldi, e volevano aiutarla a trovare sua madre. Ma lei aveva solo voglia di chiacchierare, e loro non avevano da dirle niente. Ed ecco che fecero quella fine.
Pinocchia ne combinò ancora tante, ma tante parecchio. Andò con un Gambero all’Osteria Rossa, ma invece di mangiare furono assaliti da ogni sorta di creatura ! Il Gatto fu assalito da alcune Triglie, che lo sbudellarono fino a farne cadere la trippa. Un esercito di lepri,pernici, starne, conigli, ranocchi, e lucertole fece stramazzare la Volpe, che pensava di farsi con loro una scorpacciata. Una Fetta di Pane, invece, prese a sberle, Pinocchia, e una Noce
aprì il suo gheriglio per farla fiondare nel suo mallo con violenza, contundendola. La Fetta di Pane, la Noce e l’esercito di animali voleva persino pagare l’Oste, credendo che il gatto,la volpe e la fanciullina fossero primo piatto, secondo e contorno. La Fetta di Pane, a ben pensarci, non stava schiaffeggiando Pinocchia, voleva mangiarla, ma non avendo bocca,
reagì così al suo impulso vorace. Accaddero molti altri fatti strampalati ai nostri amici buzzurri. Madama Sputaghiaccio
amava tanto i burattini, ma aveva un Montone, che prese Pinocchia per cuocerla al fuoco. La salvò Arlecchino. Un Merlo invece si pappò il Gatto. Pinocchia fu assalita dai Burattini, che volevano pestarla a sangue di brutto. La Sputaghiaccio, per scusarsi del comportamento de suoi pupazzi, regalò alla bimba un biglietto teatrale, che lei subito vendette per acquistarne uno della Fiera degli Abbecedari. Pinocchia si comprò un
abbecedario, appunto, un berretto e delle scarpe. Quando Pinocchia tornò a casa, mamma Polendina, furibonda, le tagliò i piedi con una scure. Era furibonda, anche perché la piccola spendacciona si era acquistata anche una casacca nuova, e gliela strappò di dosso. Strana reazione di questa madre, perché Polendina era una donna ricchissima, e qualsiasi scialo non sarebbe stato grave. Pinocchia, per farsi perdonare, preparò per colazione alla mamma tre pere con doppia buccia, perché incollò con del miele bucce sbucciate di altre
tre pere. Per fortuna, Pinocchia mise i suoi piedi sul Raffreddatore di madama
Sputaghiaccio, che le ricostruì due gelide protesi di neve. Entrò allimprovviso poi un
Uovo, che si spaccò a terra, e il suo guscio aperto formo una bocca, e l’Uovo con la bocca volle mangiarsi Pinocchia, che accese lo scaldano e lo sconfisse riducendolo a frittella. Entrò poi il Grillo Muto, uscito dalla bara, che le scagliò un martello. Riuscì a ritrarsi per un pelo. Un Burattino poi arrivò, con la strampalata idea di clonare sua madre! Aveva una siringa, pronta a prenderle il sangue per avere il suo dienneà. Vi figurate due mamma
Polendina invece di una? Lei pensava solo al suo amante carabiniere, e quando vide che la figlia aveva due protesi ai piedi, le mozzò anche quelli. Il Burattino, per vendicarla, rapì Polendina e la dette a Nick Pezzo Di Legno. Ecco come si conobbero lui e Pinocchia. Si piacquero, nonostante che lei non avesse più i piedi. A Nick, non importava: bastasse che
fosse femmina e c’avesse respiro. L’insegnante di Pinocchia, la professoressa Ciliegia, dovette rassegnarsi: ormai la discola era diventata una sposa novella, e a scuola non si presentò mai più. Per non averla più fra i piedi, Nick prese un’ascia, e colpi la maestra proditoriamente. La ferita le dette un forte prurito, ma ben le stava. Nick Senza Pelle si avvicinò al cadavere, e mise una parrucca alla defunta signora Ciliegia, come per scusarsi un poco del gesto irruento, o forse per rendere quel morto più carino.
– Non le ho accatastato addosso un toupet qualsiasi, signora, – disse al cadavere,
– Ma una parrucca di quelle di lusso!-
E dopo aver detto questo, le si accanì con un altro colpo di ascia.

FINE

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FilippoArmaioli

Scrivo su Alidicarta e Owntale. Voglio farmi delle ragazze giovani,ma solo se non abitano troppo lontano da Pisa.

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