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Marco aveva nove anni, e tante cose non le capiva.

A scuola, le maestre avevano appena insegnato a lui e ai suoi compagni a fare le addizioni, a sillabare parole, anche piuttosto lunghe, e a cantare delle brevi canzoni in inglese.

Quando la maestra Sandra gli diceva che pronunciava bene le parole di una canzone – che, per lo più, erano sun, sky e happy – Marco si sentiva contento e fiero di sé.

Ma perché mamma dovesse sempre chiamare Alex quando lei doveva uscire la sera, ecco, questo Marco proprio non lo capiva.

«Io la odio!» le aveva detto una mattina, dopo che lei gli aveva comunicato che quella sera sarebbe andata  a cena fuori e che, quindi, avrebbe chiamato Alex per stare con lui.

«Marco! Non si dice odio. Mai. È una brutta parola», aveva replicato lei, sparecchiando la tavola dove avevano fatto colazione.

A breve, sarebbero usciti, mamma lo avrebbe accompagnato a scuola e poi sarebbe andata a lavoro, dove sarebbe rimasta fino alle cinque, circa.

A l’una, quando la scuola fosse finita, sarebbero andati a prenderlo i nonni, come tutti i martedì e i giovedì, quando mamma lavorava tutto il giorno. Nonostante in quei giorni sua madre gli mancasse, Marco era anche contento, perché i nonni avevano sempre il gelato al cioccolato, a casa, e lui poteva mangiarne quanto voleva.

«Ma perché non posso andare dai nonni come faccio al pomeriggio?»

Marco teneva le braccia incrociate sul petto, a mo’ di protesta.

Sua madre gli pulì la bocca, ancora leggermente macchiata di latte, con un tovagliolo di carta.

«Te l’ho già spiegato altre volte», gli disse, mettendo nel lavandino le tazze sporche, che probabilmente non sarebbe riuscita a lavare prima del giorno dopo, «i nonni la sera sono stanchi e vanno a letto molto presto. Tu vuoi andare a letto molto presto?»

Veronica sapeva che Marco odiava quando gli si imponeva di andare a letto. A lui piaceva stare alzato fin quando voleva – il che, in realtà, non era un grosso problema, dal momento che, comunque, crollava quasi sempre prima delle dieci.

«No…» rispose infatti, spostando lo sguardo di lato.

Sua madre sorrise con fare vincente.

«Adesso muoviti e va’ a vestirti. Siamo già in ritardo.»

Marco scese dalla sedia e fece per andare in bagno a lavarsi i denti.

Prima di uscire dalla cucina, però, si voltò e puntò un piede a terra.

«Sì, ma Alex è antipatica, mamma, non gioca mai con me e mi dice sempre di stare buono e si fa gli affari suoi.»

Veronica era consapevole del fatto che Alex, la figlia della sua collega Amanda, non fosse la ragazza più dolce del mondo. E sapeva anche che suo figlio, con lei, si annoiava e non era stimolato; anzi, probabilmente veniva lasciato in camera sua a giocare da solo, mentre lei rimaneva in salotto a guardare sciocchi programmi in televisione.

Ma Veronica non vedeva alternative.

Alex abitava poco lontano, ed era sempre disponibile. Non le chiedeva una quantità spropositata di soldi per badare a Marco per qualche ora, e, soprattutto, per quanto fosse una persona non proprio piacevole coi bambini, Veronica sapeva che non era cattiva e, in fondo, si fidava di lei.

Inoltre, non capitava così spesso che Veronica uscisse la sera, in realtà. Due o tre volte al mese, non di più. E non è che si divertisse a lasciare Marco e andare via – a nessuna madre, pensava, fa piacere separarsi dal proprio figlio per tanto tempo –, ma Veronica aveva trentasette anni, era bella e single, e negli ultimi mesi aveva conosciuto un uomo molto interessante, con cui ogni tanto andava a cena fuori, e al quale si stava sinceramente affezionando.

Era forse un reato?

Era forse un reato che qualche sera al mese si prendesse qualche ora per sé?

No, non lo era.

Lo dicevano tutti i film e tutti i libri sulla motivazione femminile. E con tutti i soldi e il tempo che spendeva per acquistarli e leggerli – quasi sempre per intero –, non poteva non dargli retta.

Veronica guardò suo figlio con una smorfia sul viso.

Gli si avvicinò, fingendo di piangere e disperarsi, muovendo le mani chiuse a pugno accanto agli occhi.

«Sono Marco e sono un piagnucolone», lo prese in giro, continuando ad avvicinarglisi.

Marco teneva ancora le braccia incrociate, e aveva un’espressione crucciata sul viso.

«Io non faccio così!» le urlò.

Lei si mise a fargli il solletico, cosa che Marco odiava e amava allo stesso tempo, e lui, a poco a poco, si sciolse, scoppiando in una risata spensierata come solo quella di una bambino può essere.

«Facciamo così allora», gli disse Veronica, smettendo di tormentarlo, mentre lui si calmava, «per stasera va così. Porti pazienza e stai con Alex. E domani ti prendo un bel giocattolo nuovo, d’accordo?»

Veronica non ricorreva quasi mai a certi metodi per ingraziarsi il figlio, ma quel giorno decise che andava bene così. Non riusciva a pensare ad altro che alla sua serata con Jack, sentendosi emozionata come un’adolescente.

Marco le sorrise, gli occhi gli si illuminarono.

«Un Gormita nuovo?» domandò, saltellando su e giù.

Veronica gli sorrise e gli schioccò un bacio sulla guancia.

«Andata», acconsentì, «ora dai, sbrigati, altrimenti faremo tardi sul serio.»

 

Il campanello squillò mentre Veronica si infilava gli orecchini d’argento che le aveva regalato la madre per il suo trentesimo compleanno.

«Arrivo!» disse, andando ad aprire la porta a piedi nudi.

Marco si sporse dal divano sul quale era seduto, nonostante non volesse davvero vedere la faccia di Alex, ma incapace, comunque, di trattenersi.

Quando la porta venne aperta, Alex sollevò debolmente una mano verso Veronica, in segno di saluto.

«Ciao, Alex! Entra pure», rispose lei, più calorosa.

Alex entrò, e Marco si rimise seduto composto sul divano, per non farsi notare.

Ma lei, avanzando nell’ingresso, lo vide dopo pochi secondi e, mentre Veronica si recava in cucina per prendere il portafoglio dalla borsa, gli fece una linguaccia.

Marco si incupì all’istante.

Alex indossava una salopette di jeans, con sotto un dolcevita leggero color rosso bordeaux. I capelli biondi erano raccolti in due piccoli chignon bassi sulla nuca, e il suo septum al naso brillava come al solito.

Masticava ossessivamente una gomma, con la quale ogni tanto faceva dei piccoli scoppiettii all’interno della bocca, creando una piccola bolla e spingendola sul palato.

Una cosa irritantissima.

«Ecco, Alex, ti pago subito così non c’è rischio che ne dimentichiamo», disse Veronica, tornando da lei.

«Ok», rispose Alex.

Veronica le allungò un paio di banconote.

«Io sarò di ritorno alle undici al massimo. Ti prego di badare a Marco fino a quell’ora. Potete fare dei giochi, magari, qualcosa di divertente…»

Veronica fece questo tentativo senza molte speranze, in realtà, che lei le desse retta. E infatti, Alex si limitò ad alzare le spalle, facendo uno di quegli scoppiettii con la gomma.

Veronica si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Alle dieci mettilo a letto, non più tardi, mi raccomando.»

«Ok.»

Marco ascoltò la triste conversazione con lo sguardo fisso sulla televisione accesa davanti a sé, ma senza vederla davvero: Tom inseguiva Jerry senza che Marco se ne rendesse davvero conto, e quando il topino riuscì a infilarsi in una delle sue tane, mentre Tom andava a sbattere contro il muro, Marco non ci fece caso.

Non riusciva a non pensare alla brutta serata che gli si parava davanti, e sperò con tutto il cuore che quelle ore passassero in fretta.

Mentre rifletteva su tutto questo, vide con orrore che Alex gli si stava avvicinando.

«Allora», gli disse la ragazza, buttandosi a sedere di peso su uno dei braccioli del divano. «Come ti vanno le cose?»

Marco sollevò le spalle, senza voltarsi a guardarla.

Alex fece un altro di quegli scoppiettii e spostò lo sguardo sulla televisione.

«Ancora queste robe guardi? Non hai tipo undici anni?»

«Ne ho nove.»

«Ok.»

«D’accordo, ragazzi, io vado allora.»

Con grande sollievo di Marco, quel gelido scambio di battute venne presto interrotto dalla voce di Veronica. Alex si voltò verso di lei senza dire nulla. Dopo una piccola esitazione, non ricevendo alcuna risposta al suo annuncio, Veronica continuò.

«Se vi viene fame, in frigo c’è qualcosa, e tu, Alex, se vuoi puoi prepararti un caffè o un tè, fai pure.»

«Ok.»

Veronica, che si stava infilando il giubbino di pelle nero, si bloccò per un momento con il capo a mezz’aria, domandandosi se stesse facendo la cosa giusta.

Era ufficiale: quella ragazza le piaceva poco.

Finì di vestirsi, recuperò la borsa, si guardò un’ultima volta allo specchio nell’ingresso e, infine, si voltò verso il divano.

Si inginocchiò e tese le braccia aperte verso Marco.

«Vieni qui, tesoro. Dammi un bacio.»

Marco corse come un razzo e si catapultò tra le braccia della madre.

Lasciò che lei gli accarezzasse i capelli, fregandosene dello sguardo annoiato di Alex e abbandonandosi alla coccola della madre.

«Comportati bene, Marco, mi raccomando.»

«Certo.»

Veronica si rialzò e scompigliò un’ultima volta i capelli del figlio, prima di rivolgersi ad Alex.

«Allora vi lascio. Ciao, Alex, a più tardi.»

«Ok.»

Veronica si voltò verso la porta, prima di alzare gli occhi al cielo in un gesto istintivo, irritata dalle risposte menefreghiste e monosillabiche della ragazza.

E poi uscì, mandando un ultimo saluto con la mano a Marco, che ricambiò, rassegnato.

Ora, lui e Alex erano soli.

 

«Allora, marmocchio, sai come funziona, no?»

Furono le prime parole che Alex gli rivolse non appena sua madre se ne fu andata.

Un ottimo inizio.

Marco, per tutta risposta, tornò a sedersi sul divano, accovacciandosi nell’angolo, in modo da stare il più lontano possibile da lei.

Provò a concentrarsi sul cartone animato in tv, che non era più Tom & Jerry, ma un altro, che Marco non conosceva.

Alex gli si parò davanti come un gigante.

«No, non ci siamo. Io mi metto lì, tu vai in camera tua a fare quello che ti pare.»

Marco sapeva che sarebbe andata così, ne era certo.

Si alzò senza troppe storie e cominciò a salire le scale per andare in camera propria. Quando fu quasi arrivato, sentì il tonfo prodotto dal corpo di Alex che si buttava sul divano e, poi, il rumore di uno di quei maledetti scoppiettii.

Marco si lasciò cadere sul letto con un sospiro e rimase lì fermo a guardare il soffitto per svariati secondi, pensando a quanto Alex gli stesse sul… Le scatole – in realtà, pensò a quell’altra parola, quella brutta davvero, che qualche suo compagno, a scuola, usava comunque, e che se sua madre gli avesse sentito pronunciare, gli avrebbe dato un bello sculaccione.

Marco voltò la testa e vide, adagiato sul cuscino, uno dei suoi Gormiti.

Il suo preferito.

Helios, del popolo dell’aria.

Un sorriso spontaneo gli comparve sul viso, al pensiero che il giorno dopo, sua madre gliene avrebbe comprato uno nuovo.

Magari avrebbe scelto Sporius, che tutti i suoi amici avevano, tranne lui.

Marco prese in mano Helios e decise che non si sarebbe lasciato abbattere dalla serata apparentemente terribile che lo aspettava.

Al contrario, ne avrebbe approfittato per divertirsi.

Decise che avrebbe giocato tutta la sera coi suoi Gormiti.

Si alzò dal letto con un’energia nuova e si diresse verso l’angolo della stanza dove teneva il suo baule dei giochi.

Lo aprì e tirò fuori quanti più Gormiti possibile, sentendosi orgoglioso e felice della propria collezione.

Li dispose tutti sul pavimento, in piedi, in righe ordinate: davanti i più forti, dietro quelli un po’ meno forti.

Era il suo piccolo esercito.

Prima di cominciare a giocare, però, Marco aveva bisogno di andare al bagno.

Uscì dalla stanza e cominciò a scendere le scale saltellando allegramente, con ancora il suo fidato Helios nella mano destra.

Aveva deciso di usare il bagno al piano di sotto perché era quello che preferiva, con la grande finestra sul giardino e il profumatore per l’ambiente all’aroma di pino selvatico.

Più tardi, ripensandoci, si sarebbe pentito amaramente di quella scelta, consapevole del fatto che, se avesse deciso diversamente e avesse rinunciato al fottuto aroma di pino selvatico, forse sarebbe andato tutto diversamente.

Proprio in quel momento, infatti, quando ebbe raggiunto più o meno la metà delle scale, la sentì.

«Sì, sono con quel moccioso.»

Marco si bloccò, sperando che Alex, che stava parlando al cellulare, non l’avesse visto, e, infatti, era proprio così.

La ragazza gli dava le spalle, semidistesa a pancia in su sul divano, con le scarpe sopra i morbidi cuscini, un tempo puliti.

Marco si accovacciò sui talloni e rimase in ascolto.

«Sì… Sì, no, sua madre è uscita. Ogni tanto va fuori a cena, penso con un tipo… Andrà a fare la puttana, la faccia ce l’ha.»

Alex scoppiò in una fragorosa risata, e poi rimase in silenzio, probabilmente ascoltando parlare la persona all’altro capo del telefono.

«Ma sì, almeno mi prendo due spiccioli. Ma proprio due spiccioli contati, dato che è pure tirchia.»

Un’altra pausa.

«Sì, lui ha tipo undici anni, credo sia un po’ un rincoglionito. Deve avere qualche ritardo mentale, perché a volte mi sembra proprio un’idiota.»

Pausa.

Risata.

Scoppiettio.

Pausa.

«Fino alle undici, ha detto. A meno che quella lì non si metta a scopare come un riccio fino alle due di notte. Che due coglioni.»

Pausa.

«Sì, ci vediamo domani. Vado a mangiarmi qualcosa, magari frego i cereali al rincoglionito.»

Risata.

Scoppiettio.

Pausa.

«Ok, ciao, a domani.»

Fine della telefonata.

Alex si alzò e sparì in cucina, mentre Marco stringeva con forza il bordo dello scalino sul quale era seduto. Le nocche gli erano diventate completamente bianche.

Sua madre, una puttana?

Conosceva quella parola, l’aveva sentita a scuola. Non sapeva cosa significasse nel dettaglio, ma era del tutto consapevole del fatto che fosse una parola orribile.

Una parola volgare.

E Alex l’aveva appena pronunciata sotto i suoi occhi, riferendosi a sua madre.

La collera che provò in quel momento, Marco non sarebbe mai riuscito a descriverla a nessuno, nella sua intera vita.

Nemmeno lui stesso fu in grado di capire cosa stesse provando sul serio.

La sua mente si scollegò dal suo corpo, e non si rese nemmeno conto di aver cominciato a digrignare i denti come un cane, mentre un rivolo di saliva gli colava dal mento.

Quello che Alex aveva detto di lui non gli importava affatto.

E non gli importava nemmeno che gli rubasse i cereali.

Ma sua madre…

Sua madre non la doveva toccare.

Non la doveva nemmeno nominare.

«N-non…»

Marco ci provò, a parlare.

Ci provò, a dire – a urlare – quello che aveva dentro.

Ma non ce la fece.

Nel frattempo, mentre lui piangeva, spaventato e infuriato, il suo fidato Helios, abbandonato ai suoi piedi, aveva cominciato a vibrare.

 

Marco non si accorse di quello che stava capitando a Helios finché questo non raggiunse il mezzo metro d’altezza. A quel punto, il bambino si voltò, e il suo sguardo inferocito si trasformò immediatamente in incredulità.

Helios, accanto a lui, era diventato grande.

Più grande di quanto ci si possa immaginare.

E stava continuando a crescere, ora aveva raggiunto il metro pieno.

Helios continuò ad innalzarsi, e prese vita. Non sembrava più fatto di plastica, sembrava fatto di metallo, resistente e duro, e nei suoi occhi c’era una strana sfumatura, come una specie di luce.

Mentre Helios continuava a crescere a dismisura, Marco cominciò a indietreggiare seduto sugli scalini, aiutandosi con le mani.

Stava per urlare, se lo sentiva.

Si sentiva la gola tesa, pronta a lasciar scaturire fuori un’ondata di confusione e sgomento, sotto forma di grido.

Ma proprio quando Marco stava per liberare il proprio sfogo, e mentre Helios raggiungeva quasi i due metri d’altezza, il gigante si abbassò verso di lui e Marco – come avrebbe giurato più tardi davanti alla polizia e a sua madre – sentì delle parole provenire dal suo testone bianco e azzurro.

«Ti… Aiuto… Io…»

Allora, Marco non urlò più.

Rimase fermo a osservare quell’Helios di due metri fare un salto giù dalle scale, per poi atterrare sul pavimento sottostante e dirigersi verso la cucina, dove Alex era andata dopo la fine della sua nefasta conversazione, per rubare i cereali di Marco.

Quello che successe dopo segnò Marco per il resto della sua vita.

Il bambino l’avrebbe raccontato a sua madre e lei non gli avrebbe creduto.

Sua madre avrebbe chiamato la polizia, e nemmeno loro gli avrebbero creduto.

Quello che successe dopo fu qualcosa a cui solo Marco, che l’aveva visto coi propri occhi, avrebbe potuto credere.

E persino lui, a distanza di anni, avrebbe cominciato a dubitare della propria memoria, incapace di distinguere i contorni di quel ricordo confuso.

Quel che è certo è che quella sera Alex morì assassinata.

 

Helios, con la testa che ormai sfiorava il soffitto, si avvicinò a passi lenti e pesanti alla cucina, proprio mentre Alex tornava in soggiorno con in mano una scatola di cereali ancora chiusa.

«Si può sapere cos’è quest…»

La ragazza non terminò la frase.

La sua bocca di spalancò in un ovale perfetto. Al suo interno, appiccicato ai denti, Marco poté vedere il bianco del chewing-gum che stava ancora masticando.

La scatola di cereali cadde con un tonfo sul pavimento, ma non si ruppe.

Alla vista di quel gigantesco essere, le ginocchia di Alex cedettero, impotenti, e, accucciata sul pavimento, con le mani tremanti e le lacrime agli occhi, la ragazza urlò.

«Marco!»

Paradossalmente, quella era la prima volta che la ragazza chiamava Marco col suo nome.

Non moccioso, né ritardato.

Bensì, Marco.

«Alex! Tu lo vedi, vero? Lo vedi?»

Era questa la preoccupazione principale di Marco, in quel momento.

Voleva accertarsi di non essere completamente pazzo.

«Marco! Cosa sta succedendo?» urlò ancora Alex.

«Tranquilla», le disse Marco, «non ti farà del male. Lui è dei buonissimi.»

Gli sembrava assurdo doverglielo spiegare.

Che, non si vedeva, forse?

Con quei colori chiari e luminosi, quell’eleganza e quel suo misterioso bastone magico, Helios era il bene fatto a Gormita.

«Marco!»

Alex sembrava un disco rotto.

«Alex, ti ho detto che…»

«Uccidere… Alex…»

Cosa?

«Cosa?»

Marco sbarrò gli occhi.

Che cosa aveva detto Helios?

Uccidere?

Uccidere Alex?

«N-no…»

Helios aprì lentamente le forti braccia perpendicolarmente ai fianchi, con i palmi delle mani bene aperti.

«Uccidere… La puttana… Alex…»

Alex si alzò improvvisamente in piedi e, ancora un po’ traballante, fece per dirigersi verso la porta.

Inciampò sulla scatola di cereali e finì lunga distesa sul pavimento di legno liscio, sbattendo il gomito e il ginocchio.

Nel frattempo, Helios le si avvicinava, e in breve tempo le fu a meno di un passo di distanza, con quelle sue braccia aperte, simile a quella statua in Brasile di cui Marco faticava a ricordare il nome.

«Uccidere… La puttana… Alex…»

Con un gemito di dolore e un colpo di tosse, Alex cercò di rialzarsi in piedi.

Ma prima che potesse muovere un solo muscolo, Helios serrò di colpo le mani una contro l’altra –  in un unico e fatale applauso – sulla testa di Alex, di cui rimasero solamente brandelli e grumi e sangue, che schizzarono ovunque.

«A-Alex…»

Il suono che fecero le mani di Helios quando si chiusero sul cranio di Alex, disintegrandolo, fu simile a uno di quei suoi scoppiettii con la gomma da masticare.

O almeno, così pensò Marco, tremante e terrorizzato, ancora seduto sulle scale, e incapace di realizzare quello che era appena successo.

Se era successo.

Perché Marco pensò che dovesse trattarsi di un incubo, uno di quegli incubi che ci sembrano talmente reali che ci fanno svegliare di colpo tutti sudati e ansanti.

Un caldo rivolo di urina gli bagnò i pantaloni e cominciò a colare sugli scalini e – dal momento che sua madre aveva voluto fino allo stremo che la scala fosse a sbalzo – a gocciolare fin sul pavimento sottostante.

Helios era rivolto verso di lui.

Marco fissò i suoi occhi luminosi e si chiese come diavolo avesse potuto pensare che quel mostro fosse buono.

Con le lacrime che gli colavano sul viso, Marco cominciò a supplicare quello una volta era stato il suo migliore compagno di giochi.

«P-per favore… Non farmi male…»

Helios gli sorrise e quando Marco sbatté le palpebre e poi le riaprì – come ognuno di noi fa migliaia di volte al giorno senza pensarci minimamente -, Helios non c’era più.

O meglio, Helios c’era ancora, ma era tornato ad essere l’Helios di sempre, inanimato e alto solo qualche centimetro.

 

Quando sua madre tornò a casa, Marco non si era mosso da quel suo posto sulle scale.

Veronica entrò in casa sorridendo, con il pensiero ancora focalizzato sul meraviglioso bacio che lei e Jack si erano scambiati pochi istanti prima.

Aprì la porta d’ingresso riflettendo sulla proposta che John le aveva fatto prima di lasciarla davanti a casa, ossia quella di trascorrere il weekend seguente a casa sua.

Veronica non ne era sicura.

Non voleva lasciare Marco da solo per un intero weekend, ma allo stesso tempo quello che sarebbe potuto succedere durante quei due giorni insieme a Jack la faceva eccitare moltissimo.

Tuttavia, quando la porta fu spalancata e Veronica vide davanti a sé il corpo decapitato di Alex, tutto il resto scomparve dalla sua mente in un istante.

La donna si irrigidì sulla soglia, la borsetta le cadde dalla mano.

Penso di stare sognando.

Perché non poteva – semplicemente non poteva – essere vero.

Dopo quelli che le parvero secoli, Veronica distolse lo sguardo dal cadavere e si guardò intorno, alla ricerca di suo figlio.

Lo vide appollaiato sulle scale, con gli occhi fuori dalle orbite e rossi come il sangue. Il suo corpo tremava in piccole convulsioni e Veronica, vedendolo in quelle condizioni, si sentì come precipitare in un pozzo senza fondo.

Corse da lui, senza accorgersi minimamente del giocattolo del Gormita che giaceva sul pavimento.

Si posizionò davanti alle scale e si allungò verso l’alto, prendendo le manine di Marco tra le proprie e stringendogliele forte. Erano gelide.

«Amore, amore… Shh…»

Voleva tranquillizzarlo, dirgli che andava tutto bene, anche se, in realtà, nulla andava bene.

Assolutamente nulla.

Marco non la guardò, continuando a fissare il vuoto davanti a sé.

Allora, Veronica lo raggiunse, salendo i gradini di corsa, e lo abbracciò.

«Marco, cos’è successo?» gli chiese ancora stringendolo a sé, ma lui non reagì. Le sue braccia rimasero molli lungo il corpo; i suoi occhi, sempre spalancati.

«Shh…»

Voleva calmarlo, ma allo stesso tempo doveva assolutamente capire cosa fosse successo.

«Marco, amore», gli disse sciogliendo l’abbraccio e guardandolo dritto in faccia, «devo sapere cos’è successo. Va tutto bene, te lo prometto, ma devi dirmelo.»

Marco, finalmente, sbatté le palpebre e spostò lo sguardo su sua madre.

«È stato Helios.»

Veronica corrugò la fronte.

«Cosa significa, amore?»

Marco sospirò e le raccontò la storia.

 

Sua madre non gli credette.

La polizia non gli credette.

Marco restò sempre fedele alla propria versione, senza mai cambiarla, e ogni volta in cui gli venne chiesto di raccontare come erano andate le cose, lui rimase sempre freddo e convinto.

Spiegò i fatti in maniera sempre coerente e logica, per quanto nulla della sua storia fosse logico.

A quella serata, seguirono mesi d’inferno per Marco e per sua madre.

Veronica interruppe tutti i rapporti con Jack, dileguandosi senza dare troppe spiegazioni.

Ritirò Marco dalla scuola per un periodo e contattò la migliore psichiatra della città perché potesse aiutarlo.

I genitori di Alex, distrutti e sconcertati, inveirono contro di loro per mesi, minacciandoli e offendendoli, finché le acque non si calmarono da sole.

Al funerale di Alex parteciparono molte persone, ma comunque non abbastanza. Non poté essere presente nessun datore di lavoro e nessun collega, perché Alex era solo una ragazzina; nessun fidanzato o compagno, perché Alex era solo una ragazzina; nessuna nuova amica, oltre a quelle della scuola, perché Alex era solo una ragazzina, e tutte queste nuove conoscenze, che, col passare degli anni, capitano a ognuno di noi, per lei non ci sarebbero state mai.

Quello che successe quella sera non fu mai capito e dopo qualche anno il caso fu archiviato come irrisolto.

Avendo ridotto le ore di lavoro per poter stare accanto a Marco, Veronica non poté più permettersi la casa in cui avevano vissuto per tanti anni, e, da un lato, andarsene da lì non le dispiaceva affatto: la vista di quelle scale, doveva aveva trovato Marco in uno stato di profondo shock, e di quel pavimento, che era stato macchiato dal sangue di Alex, spesso le dava il voltastomaco.

Perciò, quando traslocarono in una casa più piccola, Veronica ne fu quasi sollevata.

Col tempo, lei e il figlio cercarono di dimenticarsi di tutta quella faccenda e di vivere serenamente l’uno con l’altra.

Quel che è certo è che Marco non volle mai più nessun giocattolo dei Gormiti, né di nessun altro tipo di creatura immaginaria dei cartoni animati, se è per questo.

Buttò via tutti quelli che aveva, svuotando quel baule che, fino a poco tempo prima, era stato il suo bene più prezioso.

Di quel pupazzetto di Helios non seppe più nulla. La polizia l’aveva raccolto dal pavimento e portato via, e tanto bastava.

Quasi ogni notte, Marco si svegliava di soprassalto, terrorizzato, dopo aver sognato quelle sue enormi mani che si chiudevano con uno schiocco secco sulla testa di Alex, oppure quei suoi occhi luminosi e malvagi.

Quando faceva uno di questi incubi, Marco si metteva seduto sul letto, con le mani incrociate sul petto, e cercava di respirare profondamente. Non voleva svegliare sua madre, aveva imparato a calmarsi da sé.

Tuttavia, in quelle occasioni, di notte, completamente solo, non poteva fare a meno di pensare che la colpa fosse sua.

Si diceva – e si convinceva – di essere stato lui stesso a innescare l’odio di Helios nei confronti Alex, e di averla, quindi, portata alla morte.

Allora, cominciava a piangere.

Piangeva silenziosamente e disperatamente, con rassegnazione. Ogni singhiozzo e ogni singulto lo aiutavano a sfogarsi e, in quei momenti, chiedeva scusa ad Alex.

Le diceva che gli dispiaceva, che non voleva, che avrebbe voluto poter tornare indietro nel tempo.

E poi, si addormentava di nuovo.

Quando si svegliava la mattina, la luce del sole e il contatto umano con altre persone, soprattutto con sua madre, gli davano un po’ di serenità e di rassicurazione.

E allora si diceva che no, non era colpa sua. Non avrebbe potuto evitare o prevedere in alcun modo quello che era successo.

Helios aveva deciso di agire così e forse aveva i suoi motivi.

Di giorno, Marco si diceva che quello che era successo non era dipeso da lui: Alex si era sempre comportata male, sia con lui che con sua madre, e forse, se avesse avuto un altro tipo di atteggiamento sarebbe ancora viva.

Nonostante questo, erano molte le occasioni in cui Marco si rabbuiava pensando a lei, in cui il rimorso prendeva il sopravvento e in cui si ritrovava a piangere con disperazione e a supplicare la defunta Alex di perdonarlo.

In quei momenti, Marco riusciva quasi a udire, in lontananza, la sua voce irritante, un suono ovattato e distante, che gli faceva arrivare l’unica risposta che lei sarebbe stata capace di dare.

Ok

(scoppiettio).

 

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Elena
About

Elena | 28 years old | Venice | Italian, English, Spanish | Dreamer

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11 Comments

  1. Rickyreds
    Rickyreds

    Complimenti! I racconti horror meglio riusciti, secondo me, sono quelli che generano straniamento introducendo un solo elemento soprannaturale in un contesto altrimenti del tutto realistico, e direi che qui ci siamo. I dialoghi in particolare suonano a tratti particolarmente veri, come in una sceneggiatura ben scritta. Ho apprezzato il momento in cui la storia ingrana la marcia passando in uno schiocco di dita da familiare a minacciosa, ma questo è un mio gusto personale.

  2. FilippoArmaioli
    FilippoArmaioli

    Elena sai usare la psicologia applicata alla narrativa come di solito sa fare chi è più grande della tua età, credo! Questo racconto non ha alcun difetto, ed è avvincente. Il finale è poetico e arguto (La risposta impossibile di Alex lo vedo come un perdono personalissimo).
    Nonostante Alex si sia comportata in modo spregevole, devo dire che non mi appare tanto antipatica da meritare la fine che fa, quindi il suo destino lascia un che di amaro.