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Un’altra volta sono stato un paranoico depresso stanco della vita. Invero non è che mi avesse fatto niente di così tremendo la vita, anzi! Una famiglia agiata nelle Highland scozzesi, un paio di castelli che davano su altrettanti laghetti con mostriciattolo annesso, tenute e fattorie a ogni starnuto e una valanga di sterline.

Cosa vi devo dire, sarà che la fine dell’ottocento non era un’epoca particolarmente eccitante. Sarà che, per oltre vent’anni le donne che volevano fidanzarsi con me venivano accompagnate da avvocati rapaci e madri interessate, sarà che gli amici mi chiedevano in continuazione soldi per i loro bislacchi progetti, ma avevo perso la voglia di vivere.

Così tentai in tutti i modi possibili di suicidarmi, senza riuscirci.

Il veleno? Andava giù che era una bellezza ma per qualche motivo legato a una mia evidente tara genetica, al massimo mi dava il caghetto.

I barbiturici? Un sonnellino, l’effetto “bambola di pezza” per un paio di giorni, e poi ancora il caghetto.

Stessa cosa gli estratti delle piante velenose della brughiera.

Una volta presi una grossa gomena di canapa, ci feci un cappio da una parte e ci infilai la testa mentre fissavo l’altro a una grossa trave della cantina. È ovvio che montai sulla classica sedia prima di saldare attentamente il capo in modo che il nodo non cedesse: sono sempre stato un tipo scrupoloso, io!

Se devi fare una cosa tanto vale farla bene, era il mio motto. Guardai fisso il muro giallognolo, coperto di ragnatele e di muffa e questo non fece che peggiorare il mio già malandato umore. Saltai giù dalla sedia, infine, con un urlo disumano…così, tanto per esorcizzare la paura della morte che rimaneva un punto costante nel mio tentativo di togliermela.

Ma la grossa corda che avevo usato non era adatta a spezzare il mio collo taurino, avendolo fasciato il cappio proprio per bene con un paio di giri. Sperai nella morte per soffocamento almeno, invece, proprio sul più bello, quando cominciavo a diventare allegramente cianotico e la testa perdeva lucidità, non entra il mio fido maggiordomo? Questi comincia a sbraitare e ad agitarsi richiamando tutta la servitù che, nonostante i miei cenni di dissenso…la voce l’avevo perduta poco prima…mi pigliano per le gambe. Per un attimo ho sperato che si aggrappassero tutti, così da spezzarmi il filone del collo…invece quegli imbecilli non mi alzano mentre Edward il maggiordomo taglia il cordone col suo affilatissimo coltellino svizzero?

Poi di peso nella mia stanza, mi adagiano sul letto che sono mezzo svenuto, con quegli sguardi ebeti di chi crede di aver fatto un’opera meritoria. Tra tutti spuntava lui, Edward, raggiante come se mi avesse salvato la vita. È ovvio che, appena tornata la voce, sono strato costretto a licenziarlo: dopo vent’anni di fedele servizio questo sgarro non me lo doveva fare!

Così mia madre eliminò tutte le funi, le fasce, le corde e il cordame in giro per casa; dovetti adattarmi con quello che riuscivo a trovare perché, visti i precedenti, la vecchia aveva messo sotto chiave tutti i farmaci e i veleni.

Poi fece arrivare uno specialista dalla città di Aberdeen, abitando noi stabilmente nei pressi di Inverness ritenne la distanza sufficiente a non destare troppi sospetti. E clamori.

Il dottore, un esimio luminare nella delicata specializzazione dei comportamenti depressivi paranoidi della nobiltà europea, decise di chiamare a raccolta altri suoi colleghi visto che il mio caso, a sentire lui, era qualcosa di incredibilmente interessante e unico. Io penso ovviamente che mirasse di più all’onorario che al mio caso specifico, ma quelli arrivarono di gran carriera un pomeriggio di autunno. Guardavo le foglie di quercia ingiallite dal tempo staccarsi dal loro picciolo con un sospiro e planare lente a terra. Più delle foglie, a onor del vero, ero interessato al nodoso ramo che le perdeva a vista d’occhio: avrebbe senz’altro retto il mio peso e, se mia madre non avesse levato tutte le corde in giro; mi vedevo penzolare felice nel mezzo di quella macchia di fogliame ramato.

Stavo lì bel bello a rimirare la mia fine quando la porta si spalancò ed entrarono tutti quei signori vestiti con un camice bianco. Mi misero sul letto mentre mia mamma guardava immobile, con l’espressione contrita di chi sta per ricevere la più brutta delle notizie

“Geribald” mi disse con un tono di voce talmente affranto da intristire anche la più felice delle persone “tu sei malato”.

Se uno si chiama Geribald tanto bene non può stare, stupida vecchiaccia. Pensai.

Così cominciò la visita specialistica di quel significativo concistoro delle menti più brillanti della psicologia. Uomini dotati di tanta di quella scienza che questa usciva come sudore da ogni poro della loro prestigiosissima pelle. Mi hanno studiato, osservato e analizzato. Il loro responso finale, nero su bianco, fu stato che ero affetto da isteria subconscia dovuta alla sessualità repressa.

Ci credo, avevo quasi trent’anni ed ero vergine!

Così la mia buona madre pensò bene di far arrivare dall’Italia una nostra lontana cugina, coma sua dama di compagnia.

Quando Adele arrivò fu come l’arrivo del sole in una giornata di nebbia, era splendida con quei suoi lunghi capelli neri e quella pelle olivastra che risplendeva lucida persino in una giornata di pioggia: come è ovvio, me ne innamorai e, incredibilmente, anche lei di me. Non dei miei soldi, di me!

Non pensavo più a quale tipo di pianta velenosa crescesse in quella stagione nella brughiera o a quale dei coltelli di casa avesse il filo più sottile, pensavo solo a lei.

Mia madre era divenuta un’altra donna tanto era felice, Adele, la mia Adele piaceva tanto anche a lei, soprattutto perché l’imponente eredità di famiglia sarebbe andata a fondersi con un’altra simile, se non superiore. Lo so, mia madre è molto avida…

Un pomeriggio in cui il sole aveva fatto capolino tra una coperta di nubi grigiastre decidemmo, io e la mia amata, di fare un pic-nic nel parco di casa. Nulla di che, solo una scusa per poter stare da soli.

Il mio fine era quello di chiederle di sposarmi. Quando le feci la mia proposta, tra un toast e un sandwich con paté di salmone lei mi guardò con un infinito amore: “Sì” mi rispose. Un solo monosillabo che per me equivaleva alla felicità.

Stavo per sugellare il nostro amore con l’ennesimo bacio quando, in abiti borghesi, alle mie spalle comparve Edward con un piccone in mano.

“Bene” sibilò “il signorino ha trovata una ragione per vivere. Peccato che, prima di arrivarci abbia rovinato la mia vita e quella della mia famiglia. Vuole ancora morire? No? Adesso è tardi, vedrò di accontentarla io”

Alzò la picca e, sotto lo sguardo terrorizzato di Adele, me lo ficco nella schiena fino al cuore, ridendo sguaiatamente.

La penultima volta che mi accadde il mio nome era Ugo Alai ed ero un taxista nella Milano anni ’60; la Milano da bere. Certo, la vita per uno come me, sempre immerso in questo traffico caotico per dieci ore al giorno può diventare un peso opprimente; e la presenza continua di cantieri stradali è davvero stressante. E dopo anni di quel martirio, esasperato dall’ennesimo cantiere ho deciso che ne sarei diventato uno anch’io…mi sembra del tutto logico, se non puoi combatterli unisciti a loro, giusto? Rubai nottetempo un sacco di quei cartelli stradali sui trespoli indicanti i più svariati divieti, le direzioni obbligatorie e i sensi unici alternati, che potei. Anche qualche mina per la luce e tutto quanto l’occorrente. Mi trovai un posto adeguato, imbastii tutto il teatrino, mi denudai e mi spalmai sull’asfalto in una posa quanto più possibile somigliante a una crepa.

Per qualche tempo niente, la gente passava oltre imbarazzata tentando di allontanare lo sguardo e allungando il passo; evidentemente non mi ero impegnato abbastanza da risultare un “Lavoro in corso” credibile. Ma un giorno è successo il miracolo; ero lì, stravaccato a terra, in una posa che sembrava proprio una grossa crepa dell’asfalto. Le prime luci del mattino e le mine accese illuminavano i quattro lati del mio cantiere, i cavalletti reggevano il nastro a bande bianche e rosse che si agitava appena, mosso da un venticello tirato come un rasoio e la pletora di cartelli stradali, messi con oculata perizia, svolgevano il traffico intorno a me. Per primo arrivò un vecchio pensionato, stette a guardarmi un po’, le mani intrecciate dietro la schiena, sul viso un’espressione di diniego. Poi se ne aggiunse un altro e poi un altro ancora, finché si forma un crocchio di vecchi che mi guardavano scuotendo il capo. Uno di loro intervenne: “Io non sarò un esperto” precisò “ma quella gamba lì mi sembra sia montata in modo sbagliato!”

E un altro: “Hai ragione, e vogliamo parlare della testa? Per me andrebbe molto più a destra, direi sotto l’ascella”.

“Probabilmente la copriranno, è troppo malfatta. Le braccia invece, se fosse per me, le metterei sullo stesso lato”. Anche un altro, con un cappello nero di lana e uno strano sguardo negli occhi, volle dire la sua: “Certo che questi stradini moderni non sanno proprio fare il loro lavoro. Ai miei tempi non si lasciava un lavoro in corso in queste condizioni. Io andrei in comune a protestare”. Detto questo si allontanò sul suo APE ribaltabile e sparì, inghiottito dal traffico che si stava formando anche quel giorno.

Gli altri invece rimasero ancora, intenti a parlare di come mi avrebbero dovuto smontare e rimontare; mi avevano davvero preso per un cantiere aperto! Certo, la demenza senile gli aveva dato una bella mano.

Se non che, tutta quell’accesa discussione unita al fatto che mi ero messo nell’incrocio di via Liguria e Viale Europa, aveva richiamato altre persone, tra le quali molti autisti incacchiati per quell’ulteriore inghippo di un percorso che, tra incroci, semafori e un traffico che andava via via montando come panna, si sarebbe dimostrato il solito, maledetto calvario. Poi arrivarono loro; due ghisa con la loro bella uniforme bianca e il classico cappello a ditale. Non credettero ai loro occhi nel vedere un uomo nudo, in mezzo a un catafalco di insegne stradali, circondato da uomini che ne stavano discutendo la giustezza dell’anatomia. Fecero sgomberare il capannello di persone, pensionati compresi, e chiamarono un’ambulanza. Neppure per un attimo credettero che io fossi davvero una spaccatura rosa dell’asfalto!

Uno se ne andò a risolvere il traffico che si era formato, mentre l’altro restava di guardia che non me la filassi…sì, certo, come se una fessura per terra potesse alzarsi e sparire nel nulla.

Dopo qualche minuto sentii il crepitare basso del clacson di un motocarro APE e, da una piccola stradina laterale vidi fiondarsi il mezzo guidato dal vecchio col cappello nero di lana e lo sguardo strano, fu un attimo, mi si mise a fianco e, prima ancora che il vigile se ne rendesse conto, svuotò su di me il ribaltabile, al grido di: “Sei sfortunata, maledetta crepa, io sono stato uno stradino, non ti preoccupare: adesso ti aggiusto io!”

Quel maledetto pensionato, col suo carrettino pieno di catrame fumante, mi scaricò addosso una quintalata di quella roba, sommergendomi completamente. L’asfalto, al fresco della giornata meneghina, si rattrappì subito…e io con lui!

Adesso però, per la prima volta, sono veramente angosciato, rinchiuso in un appartamento nella periferia di Portland, che definire una discarica sarebbe riduttivo. Mi sto guardando allo specchio del mobiletto del bagno. Sono vecchio, ma non così tanto da aspettare la morte come una consolatrice. Il viso macilento, le occhiaie profonde, il colorito cadaverico. Grosse lacrime unte solcano le mie guance cadendo nel lavabo. Da molto tempo, visto che hanno lasciato solchi rossastri lungo il loro percorso. Gli occhi cisposi e arrossati non hanno più la luce di un tempo e le testa si è spenta pochi mesi fa. Nell’esatto momento in cui un medico distaccato e asettico mi annunciò che la mia adorata moglie Jane era morta sotto i ferri di quella dannata operazione al cuore. E lo fece come stilando una banale lista della spesa: un po’ di questo, a cui si è aggiunto anche quello, il tutto insieme a questo…concludendo, il suo cuore non ha retto! Ma neppure il mio. Cinquantadue anni; non si è più giovani ma neppure vecchi, e i figli danno per scontato che un genitore, dopo una batosta del genere, possa riprendersi. Lentamente, ma che torni alla vita. Che ne sanno loro di quello che provo io? Che ne sanno tutti? Quando la notte mi sveglio mille volte e la mano cade nel vuoto freddo del letto dove, per trent’anni aveva dormito la mia adorata Jane. Mi rivolto e piango finché, spossato, riprendo il sonno. Solo per pochi minuti.

La mia anima è vuota, il mio essere annullato, non esiste altra soluzione che raggiungerla! Vuoto nel palmo della mano una manciata di pastiglie rosso fuoco.

“Mi raccomando, signor Donovan. Una pastiglia solamente! Al massimo due quando l’angoscia si fa insostenibile! E non beva alcool, mi rimetto al suo buon senso” Ha detto il mio medico curante quando me le ha prescritte.

Alzo gli occhi al cielo, le ingurgito d’un fiato e prendo dal mobiletto una bottiglia di cognac invecchiato vent’anni. Lo tenevo per una occasione speciale, cosa c’è di meglio di questa? Vado in sala e mi siedo sulla vecchia poltrona di pelle sulla quale scherzavo con Jane del nostro futuro insieme nella casa di riposo. E quanti baci, dolci e appassionati! Bevo avidamente al collo dell’elegante bottiglia di cristallo molato. Il liquido ambrato mi brucia in gola come fuoco. Grossi rigagnoli scendono dal lato della bocca. Aspetto qualche minuto tenendo tra le mani la sua Bibbia. Un sonno innaturale mi assale, tiepido, morbido, amichevole, dopo lunghe notti insonni. Chiudo gli occhi e mi pare di vederla, in lontananza, che mi sorride e mi aspetta.

“Arrivo, amore”. Sussurro un attimo prima di esalare il mio ultimo respiro.

Sono tornato nuovamente nel Limbo, ma qualcosa mi è rimasto dentro stavolta, un magone, come se qualcuno mi strizzasse il cuore che non ho, con tutta la forza possibile. Appena arrivo, ad accogliermi c’è Pietro, con la sua divisa bianca da portiere dell’aldilà. È tutto un sorriso e uno sdilinquimento, in mano tiene una pergamena dorata.

“Bravo, bravo caro il mio…beh, non hai ancora un nome, sarà meglio che te ne venga assegnato uno. Diciamo Giovanni? Va bene Giovanni? Vada per Giovanni! Allora, caro Giovanni, questo è l’attestato di passaggio di categoria da ottantesimo, anonimo livello a trentesimo…con diritto al nome”.

Nel parlare così spedito mi allunga la pergamena con un altro dei suoi orrendi sorrisi di scena e tenta di stringermi la mano. Che non ho.

“Hai atteso per secoli, caro Giovanni, ma con applicazione e tenacia i risultati si raggiungono, Hai visto?”

“Si, grazie!” Balbetto inebetito per la sorpresa, ma quella sensazione di dolore aumenta a dismisura.

“Va bene, adesso devo andare. Ancora complimenti Giovanni, e buon seguito di lavoro visto che ora ti spetteranno casi ben più importanti.

“Opporcavacca” Penso tra me. A dire il vero non mi trovavo poi così male all’ottantesimo livello. Casi patetici, è vero. Morti assurde, lo concedo; ma legate all’umana stupidita così tanto da farle risultare quasi ironiche. Mi davano la forza di andare avanti in questo assurdo lavoro! Ma ora come farò? Non credo di avere il coraggio di provare nuovamente un dolore simile, un senso di vuoto tanto grande e denso. No, credo che non ce la farò. Vado da Dio a chiedere si mi può cambiare di mansione. Al diavolo la carriera!

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Alcano
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Cinquantasette anni e un sacco di e-book all'attivo, scrivo solo per passione e per appassionare, per dimostrare che si è sempre giovani per scrivere.

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