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Turchia; 9 agosto 1975

Il torrido sole pomeridiano riverberava la sua intensa luce sulla sterpaglia giallastra della steppa anatolica, ai piedi della catena montuosa del Tauro Orientale Esterno, scaldando ulteriormente l’aria già rovente intorno all’accampamento del sito archeologico nei pressi della città di Gaziantep.

Situata nella zona più settentrionale della Mesopotamia, tra i fiumi Tigri, che proprio in quei monti ha la sua sorgente, e l’Eufrate. Gaziantep era ritenuta una delle più antiche città abitate continuativamente del mondo, e il probabile sito archeologico della città ellenica di Antiochia nei monti Tauro. Tanto era il caldo che persino i venefici scorpioni e le freddolose lucertole uromastyx si rintanavano nei loro rifugi per assaporare quanto più refrigerio possibile in quella parte del giorno così infuocata.

Stefania invece stava lavorando alacremente, colpendo con una piccola piccozza il suolo per levare con attenzione i milioni di minuscoli granelli di terra e sabbia cementati dal tempo e dalla pressione degli strati superiori. Nella profonda buca in cui si trovava faceva un caldo infernale sebbene un ampio telo di lino coprisse l’intera superficie degli scavi nei quali lavoravano lei e altri dieci suoi colleghi dell’Università del Massachusetts. Nonostante quell’improvvisata protezione il vento caldo riusciva a trafilare all’interno da ogni pertugio, ammorbando l’aria e lambendo la pelle di Stefania.

Si alzò dalla sua posizione accucciata, tergendosi dal sudore che colava copioso sulla sua fronte. Era una giovane donna di circa trent’anni con un volto sottile e uno splendido nasino alla greca con una piccola gibbosità sul dorso, ma quello che più colpiva l’attenzione di chi la osservava, erano i due grandi e brillanti occhi di un colore marrone così intenso che quasi tendeva al nero; il tutto era incorniciato da una lunga capigliatura riccia e scura. Non era molto alta, anche se il fisico era ben proporzionato e molto piacevole, specialmente avvolto in quella sahariana color cachi che ne esaltava ulteriormente le forme. Soprattutto in quel momento perché rorida di sudore la avvolgeva come una seconda pelle.

“Dottoressa Grandi, venga a vedere, corra!” La voce femminile arrivò dal lato opposto della grande fossa.

Stefania lasciò malvolentieri i suoi attrezzi da lavoro e s’incamminò verso la giovane donna piegata, come nell’atto di ammirare qualche cosa a livello del terreno.

Lo scavo era lungo almeno duecento metri, quasi altrettanti la distanziavano dal suo obiettivo e, sotto quel caldo snervante la fatica di percorrere il tratto velocemente le sembrava assurda ma tutto ebbe modo di cambiare quando si rese conto della scoperta della sua assistente.

“È una porzione di un muro” disse la giovane “Costituita da dieci strati affiancati di mattoni cotti e crudi, interamente ricoperti da una patina di mattonelle in argilla smaltata con sgargianti colori, almeno quello che ne rimane, e disegni geometrici. Da quanto ho appena scoperto, su questo lato dipartiva una rampa perpendicolare!”

“Claudia!” Disse Stefania sbalordita “Sembra proprio la stessa porzione di parete sulla quale io sto lavorando dall’altro lato dello scavo, gli stessi colori, la stessa misura di laterizi e la stessa qualità costruttiva, senza contare il disegno della smaltatura dei cocci che formano il rivestimento esterno!”

Come se per la prima volta si fosse realmente resa conto di ciò da cui era circondata percorse di corsa, nonostante la canicola, l’intera area degli scavi, ordinando mentalmente ogni singolo mattone, ogni singolare brandello di parete. Da un lato a quello opposto la donna correva e bofonchiava tra sé parole che gli altri non riuscivano a comprendere, emetteva poi gridolini di gioia o sbuffi di stupore. Finché non si calmo e si avvicinò a Claudia

“Sai cosa abbiamo scoperto?”

Claudia Poggi si drizzò inorgoglita “Sì, se non erro, questa è la rovina del basamento di un Etemenanki”.

“Lo credo anch’io, ma come è possibile che sia stato costruito uno Ziqqurat in questa zona!” Chiese Stefania a voce alta, attendendo una provvidenziale quanto improbabile risposta da parte degli altri archeologi. “Siamo troppo a nord rispetto alle zone mesopotamiche di Babilonia, Ur o Sialk. Queste costruzioni sono tipiche delle civiltà sumere e assire, ma non certo di quella Çatalhöyük, i cui reperti paleolitici stiamo cercando in questa dannata steppa afosa. Non è concepibile che qui, nel mezzo dei monti Tauro, si trovi una costruzione del genere; è irreale. Dobbiamo datarla!” Stefania si rivolse a uno degli studenti che, colto dalla sorpresa, si era fermato e le osservava con lo sguardo interrogativo.

“Bill, fammi un piacere. Raccogli qualche campione di vasellame e schegge di mattone, impacchettali per bene e spediscili al dipartimento di Chimica Nucleare dell’università. Specifica che io richiedo immediatamente la datazione al radiocarbonio-14 dei reperti!”.

L’ordine era alquanto tassativo, e così il ragazzo cominciò a vagliare i frammenti di vasellame che aveva recuperato fino a quel momento.

Stefania, soddisfatta dalla solerzia di Bill, si volse verso Claudia.

“Si è sempre pensato che, solo a causa della mancanza di pietre, in Mesopotamia, le ziqqurat fossero state costruite con mattoni crudi e cotti, con canne legate in fasci e con bitume usato come calce e come isolante; qui invece le rocce non mancano certamente, circondati come siamo da queste aspre cime. Questo significa che, chi ha costruito questo Etemenanki l’ha volutamente fatto utilizzando questo materiale, perché?”.

Stefania si rivolse a un giovane ragazzo che, fino a quel momento, aveva assistito muto al colloquio tra le due archeologhe.

“Jimmy, corri allo scavo superiore e dì al professor Morgan di raggiungerci!” Intimò perentoria. Ordine subitamente eseguito del suo sottoposto, che malvolentieri uscì dall’estemporaneo riparo per addentrarsi sotto il caldo sole turco.

Damian Morgan era l’archeologo posto a capo della spedizione, l’Università riponeva in lui grande stima, anche se era molto giovane rispetto alla maggior parte dei suoi colleghi accademici.

Con un’altra squadra di dieci assistenti stava seguendo la parte prominente dello scavo, quella più incoraggiante, in cui sperava di trovare le tracce della civiltà ellenica di Antiochia ad Taurum, vicino ai resti della antica città che i romani chiamavano Doliche.

Stava controllando alcuni cocci di vaso che aveva appena dissotterrato quando, trafelato dalla fatica e dal caldo, Jimmy lo raggiunse.

“Signore, la dottoressa Grandi ha scoperto qualcosa di eccezionale e ha chiesto se può raggiungerla urgentemente!”.

Con un gesto che al ragazzo parve di malcelata stizza, l’archeologo lasciò cadere sul setaccio il frammento che stava studiando.

“Andiamo a vedere cosa ha trovato, questa volta!”.

Non era sempre stato così indisponente nei confronti della giovane collega, anzi.

Per diversi mesi, nell’anno precedente, lei era stata nel suo cuore, pesantemente. La giovane studentessa che s’innamora del brillante professore è il più classico dei luoghi comuni nell’ambiente accademico, ma il gelido e zelante Peter Morgan non era mai caduto nei tranelli tesi dalle giovani universitarie in cerca di crediti o favori. Con lei però, fu diverso, appena la vide entrare nella grande sala, con la luce del sole che le inondava i capelli, se ne innamorò perdutamente. Lei all’inizio pareva ricambiare questo suo sentimento, ma con il passare del tempo l’ardore si freddò, congelato dalla voglia di Stefania di non legarsi intimamente con nessuno, nella paura di non riuscire a crearsi la carriera che aveva sempre desiderato per sé stessa.

Non voleva legami sentimentali, così Damian ne pagò le conseguenze. Ci vollero settimane prima che lui le rivolgesse nuovamente la parola dopo la rottura e mai avrebbe preso con sé quella donna nel suo scavo, se non le fosse stata caldamente raccomandata dal rettore dell’università in persona, cosa che lo fece imbestialire ancora di più.

Il ragazzo si sentì gelare il sangue “Nuovamente sotto questo sole, no!” Invece l’archeologo, che la pensava diversamente, lo costrinse ad accompagnarlo al campo secondario, quello in teoria meno importante, dove aveva volutamente esiliato la dottoressa Stefania Grandi, per non averla intorno.

Appena arrivati Damian cominciò a guardarsi in giro, accecato dal riverbero del deserto, in cerca della sua collega. La vide poco dopo, quando le sue pupille tornarono in condizioni accettabili; la visione della sagoma della donna lo colpì al cuore. Provava ancora qualcosa per lei e questo non lo riteneva accettabile, si morse il labbro inferiore come per flagellarsi per quel pensiero inverecondo.

“Che cosa hai scoperto di così importante!” Il tono irritante parve stridere con l’atmosfera di stupore e di gioia che aleggiava tra i ricercatori del sito.

“Vieni a vedere”. Disse Stefania, ignorando completamente l’acredine del suo mentore. Gli mostrò quanto avevano scoperto, bastò poco tempo al professore per rendersi conto dell’incredibile importanza del ritrovamento. Cominciò a girare attorno alle rovine esterrefatto, null’altro pareva avere più nessuna importanza, ormai. Si volse verso il gruppetto di persone che, in silenzio lo avevano visto seguire il perimetro della struttura più e più volte.

“È indiscutibilmente, la pianta di uno ziqqurat mesopotamico, anche se è incredibile trovarlo in questa zona!” Ripeté Morgan, allibito, dopo essersi ripreso dall’emozione.

“Cambio di programma, tutti gli assistenti e gli aiutanti arruolati nella popolazione locale saranno convogliati presso questo sito!” Ordinò il capospedizione.

Nei giorni seguenti le oltre venti persone scavarono alacremente, per liberare le fondamenta dell’edificio dalla copertura in terra che le ricopriva, e alla fine dell’ottavo giorno, tutto il perimetro fu scoperto dalla terra che lo aveva avviluppato per secoli come un sudario ocra, stupendo tutti i presenti per la sua magnificenza.

“Proviamo a misurare la reale estensione di questo ziqqurat!” Ordinò Damian.

Alcuni studenti presero una lunga cordella di iuta, la struttura muraria era troppo lunga per poter essere misurata con il normale metro a nastro di cui erano dotati. Fissarono in paletto in ogni angolo e quindi stesero da un punto all’altro la corda, recidendo ogni singolo tratto del nastro per poi misurarlo separatamente.

“Le dimensioni sono inconcepibili!” esclamò l’archeologo quando gli furono portate tutte le misurazioni “La lunghezza è di centottantatrè metri e la larghezza di centoquarantanove” prese una grossa calcolatrice, posta in una tasca a fianco del diario e cominciò nervosamente a battere i tasti.

“Sono le stesse proporzioni” Disse rivolto a Stefania, infervorato come un bimbo che ha scartato il dono di Natale, trovando il gioco tanto desiderato. “Quindi, a conti fatti, prendendo il rapporto con la grandezza dello Ziqqurat di Ur, all’origine questo doveva essere alto quasi novanta metri”

Un brivido percorse la schiena della donna, un lampo, un’intuizione così folle che lei la rifiutò a priori.

Eppure tutto tornava sempre, ogni confronto, ogni singolo tassello coincideva in maniera palese.

“Vi sembrerò pazza” esordì “ma credo che questa potrebbe essere la mitologica Torre di Babele, le misure corrispondono e lo stile è proprio quello riportato nella Qabbalah o nella Bibbia!”.

Un sussulto scosse tutti i presenti, alcuni di loro accennarono una smorfia di derisione o compatimento, altri ancora, invece, aggrottarono le sopracciglia ritenendo l’ipotesi plausibile, ancorché difficile da dimostrare.

“Dopotutto, quale altra spiegazione possiamo dare a tutto questo?” Aggiunse, quasi a giustificare la sua teoria.

La voce di Damian risuonò nello scavo. “Questo vuol dire che ci troviamo nella valle che la Bibbia chiama Sennaar?”.

“Tutti i richiami arcaici però la pongono centinaia di chilometri più a sud, in quella che era la Mesopotamia.” Rispose Daniela.

“Questo non è del tutto vero! Sempre secondo le sacre scritture quella terra fu abitata anche dai figli del patriarca Noè e che la costruzione della Torre di Babele cominciò centoventi anni dopo il diluvio, Se l’arca si arenò sull’Ararat, e per parecchio tempo gli uomini non scesero dalla montagna è logico supporre che lo fecero in queste pianure prospicienti la corona del Tauro. Questo sconvolgerebbe tutte le nozioni finora conosciute sull’argomento!” Rintuzzò entusiasta Damian.

“Siamo nel luogo in cui hanno avuto inizio tutte le lingue postdiluviane!” Continuò Stefania, evidentemente molto ferrata sull’argomento “Una leggenda appartenente alla mitologia tartara, dei Buriati e dei Calmucchi dell’Asia settentrionale rivela che la montagna sacra era in realtà un edificio a gradini, costituito da sette blocchi, di dimensioni decrescenti progredendo verso l’alto, al cui apice era posta la stella polare, ombelico del Cielo, equivalente alla base della piramide, che invece rappresentava l’ombelico della Terra. Questo tipo di costruzione, che non trovato precedenti tra quelle popolazioni, coincide in tutto e per tutto con la descrizione della “ziggurat” sumera, nata appunto come montagna artificiale. La certezza che non si trattasse di una coincidenza è assegnata dal nome che questi popoli nomadi diedero alla torre mitica e sacra: “Sumer”. “

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Cinquantasette anni e un sacco di e-book all'attivo, scrivo solo per passione e per appassionare, per dimostrare che si è sempre giovani per scrivere.

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