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Se qualcuno le avesse chiesto cosa ci faceva una ventunenne inglese seduta sullo scomodo seggiolino di un HUMVEE, con un M16 di traverso sulle gambe e un asciugamani da beduino in testa, la risposta sarebbe stata semplice: Samantah Howards non aveva mai voluto essere una principessa. Sam, come la chiamavano tutti, sapeva che le sue coetanee, di solito, pensavano all’università, ai ragazzi, o in generale a fare festa. Ci pensava anche lei, più che altro ai ragazzi, e spesso anche. Ma forse non abbastanza.

Almeno una parte di responsabilità per come si erano messe le cose era da attribuire a suo padre. Come quando, a 7 anni, Sam aveva annunciato al mondo che non le importava un accidente di fare la ballerina e che preferiva di gran lunga il ruolo di centroavanti, e lui aveva cercato il più vicino club di calcio femminile. O quando, finito il liceo, si era iscritta a Storia, una laurea che, con l’aria che tirava, avrebbe potuto fruttarle al massimo un posto da cassiera al supermercato. Anche quella volta suo padre, vecchio anarchico con la passione per le chitarre finito a fare il sindacalista in fabbrica e quindi grande esperto di sogni schiantatisi contro la dura realtà, l’aveva appoggiata. Il padre di Sam non aveva mai cambiato approccio con lei, neanche quando lo aveva informato della sua intenzione di partire per combattere una guerra.

Tutto era cominciato con un video dei mujahideen del Daesh, nel quale minavano con gli esplosivi il Tetrapilo di Palmira. Non era la cosa peggiore che gli avesse visto fare. Ma in quel video li aveva visti per quello che erano in realtà: teppisti ignoranti e strafatti che uccidevano persone e distruggevano cose solo per il gusto di farsi guardare mentre lo facevano. Quando si era resa conto che non sarebbe più riuscita a guardare e basta, Sam aveva fatto quello che faceva sempre: andare dritta per la propria strada. Così si era iscritta a un corso intensivo di arabo e a uno di sopravvivenza e quando finalmente si era sentita pronta, aveva comunicato la decisione a suo padre. Era preparata a tutto, tranne a quello che successe.

Suo padre l’aveva ascoltata fino all’ultima parola. Aveva detto “Sono fiero di te”. Ed era scoppiato a piangere. Aveva pianto anche Sam, e poi avevano riso insieme, sentendosi stupidi e imbarazzati, perché non erano quel genere di padre e figlia. O forse lo erano, ma non come gli altri.

 

Era trascorso un anno da quel giorno.

Ora Sam aveva un’uniforme delle YPJ, le Unità Curde di Difesa delle Donne, e un nome di battaglia, Shilan. Aveva combattuto a Raqqa, dove era rimasta ferita nell’esplosione di un ordigno improvvisato e per poco non ci aveva rimesso un piede, e cominciava a masticare il kurmanij.

Sigillate nella cabina dell’HUMVEE, dietro i doppi vetri antiproiettili, Sam e la sua compagna di pattuglia Shereen rosolavano nel proprio sudore. La pista che stavano esplorando si arrampicava tra le rocce infuocate delle colline a est dell’Eufrate. Era insolito andare di pattuglia solo in due, come gli sbirri nei telefilm, ma i droni non segnalavano attività sospette. In pratica quello era il più tranquillo angolo della Siria, nonostante fosse stato sotto il controllo dell’ISIS pressoché dall’inizio. Era come se i mujahideen si fossero limitati a girargli attorno per tutto il tempo, il che, secondo Sam, poteva significare solo due cose. O era un covo da usare con estrema cura, oppure non c’era un accidente.

Seduta sulla punta del sedile per raggiungere i pedali, il collo proteso a sbirciare la strada, Shereen sembrava una bambina delle elementari che giocava con la macchina di papà. Chiunque avesse progettato l’HUMVEE, l’aveva fatto pensando a marine americani di un metro e novanta, non certo a ragazze curde magroline, ma comunque il sergente se la cavava benone. Di poco più vecchia di Sam, Shereen era una veterana dell’assedio di Kobane, e cosa più importante, parlava inglese. Prima della guerra studiava Legge all’università di Aleppo. La sua famiglia era fuggita in Turchia. Lei no.

Sam controllò il GPS.

-C’è una deviazione tra poco. Che non va da nessuna parte. Finisce tra le colline un miglio più a est. In un posto che si chiama…-  si sforzò di leggere correttamente –Wadi al Mawaizi?-

-La valle delle capre- tradusse Shereen.

-Wow. Dev’essere la Las Vegas di queste parti- mormorò Sam, scrutando verso le colline brulle.

-Se ha un nome vuol dire che c’è qualcosa. Forse una fattoria con un pozzo. Andiamo a vedere-

Sam annuì e prese il binocolo dallo zaino.

La mulattiera si addentrava in un piccolo canyon, punteggiato di cespugli spinosi. Non si muoveva niente, neppure il vento. L’HUMVEE si arrampicò ballonzolando fino all’apice della salita, fermandosi poco prima di scollinare. Shereen prese il fucile con l’ottica di precisione e scese. Sam la seguì, l’M16 a tracolla.

-Un cazzo di posto per un agguato-

-Stai giù, spilungona-

Sam si acquattò lungo la parete di roccia.

Shereen strisciò pancia a terra fino alla cima del crinale. Sbirciò attraverso l’ottica del fucile, prima di fare un cenno a Sam, che la raggiunse inginocchiandosi al riparo.

Il canyon si allargava in un altopiano, al centro del quale alcuni edifici bianchi brillavano come cristalli di sale sotto il sole cocente. Era un piccolo villaggio in buone condizioni, cosa più unica che rara, dopo otto anni di guerra. Più strano ancora, le case erano circondate da orti e frutteti, come se l’acqua non fosse un problema. La vegetazione appariva rigogliosa, come Sam aveva visto solo lungo l’Eufrate. Anzi, sembrava persino più verdeggiante, i rami carichi di frutta, gli orti gonfi di un raccolto prodigioso. Oltre i muri a secco che delimitavano i giardini, i cespugli fioriti diradavano lentamente fino a sparire del tutto sugli orli rialzati della valle, dove il deserto tornava a dominare.

Ogni casa aveva anche un recinto, con tettoie di legno per proteggere gli animali dal sole, e abbeveratoi. Gli ospiti degli accoglienti serragli erano capre, che al momento riposavano spaparanzate all’ombra. Erano tutte nere, i velli lucidi, i maschi ben distinguibili per le dimensioni più che doppie rispetto alle femmine e le gigantesche corna ricurve. L’unica strada terminava in una piazza circondata da un pergolato ricoperto di rampicanti in fiore. Nel mezzo della piazza, si intravedeva l’ampia vasca di una fontana. Non c’erano molte persone in giro, ma a quell’ora del giorno, con il sole quasi a picco, era normale. Una banda di bambini, maschi e femmine, giocava rumorosamente nella vasca di pietra. Alcuni giovani li sorvegliavano seduti sotto il pergolato. Non c’erano anziani in vista. E nessuno portava armi.

-Non vedo sentinelle- disse Sam.

-Manca anche qualcos’altro- mormorò Shereen.

Sam guardò di nuovo.

Le ragazze non portavano il velo. Gli uomini, poi, stavano tranquillamente a torso nudo in presenza di donne. Dopo un anno in un paese musulmano, Sam aveva smesso di considerare comportamenti simili come normali. Abbassò il binocolo, perplessa.

-Esistono comunità hippie, in Siria?-

-Non so di che parli- rispose il sergente.

Tornarono all’HUMVEE. Shereen comunicò via radio la loro posizione al comando, prima di mettere in moto e ripartire.

Le prime a notare il loro arrivo furono le capre.

Le seguirono con attoniti occhi gialli, le pupille orizzontali come insetti intrappolati in perle d’ambra. I maschi si avvicinarono minacciosi ai recinti, pronti a raccogliere la sfida del veicolo a motore, come diavoli dalla testa d’ariete sulla copertina di un album black metal. A guardarli da vicino davano i brividi.

Gli abitanti del villaggio reagirono meglio delle loro greggi. Continuarono a riposare seduti all’ombra, fissando l’HUMVEE in avvicinamento. Sam vide uscire dalle case altri giovani, che si limitarono a guardarle passare, come se la loro visita inattesa non destasse la minima preoccupazione. Shereen parcheggiò al confine della piazza, spense il motore, controllò che la pistola fosse carica e scese.

-Stai vicina al mezzo- disse a Sam, infilando la pistola nella cintura.

Sam si issò sul predellino. L’aria profumava di vegetazione, tanto da stordire. Sorrise ai bambini che avevano smesso di giocare nell’acqua per godersi lo spettacolo delle strane ospiti. Tutti gli abitanti erano ben nutriti, puliti e in salute. E robusti anche. Con il suo metro e ottanta di statura Sam di solito svettava anche tra gli uomini, ma non qui: gli uomini erano alti e muscolosi, donne slanciate e sinuose, per nulla impressionati alla vista di ragazze in uniforme. Sam incrociò lo sguardo di uno dei ragazzi. Aveva gli occhi azzurri, che risaltavano come schegge di cristallo sul volto scuro, un sorriso candido e appena un po’ guascone, e un fisico così ben modellato da costringerla a guardare altrove prima di farsi distrarre troppo.

Shereen si posizionò di fronte al muso dell’HUMVEE. Nessuno degli uomini si mosse. Fu una delle donne a farsi avanti. Aveva lunghi capelli nero corvino, lisci come un velo di seta, ed era di una bellezza così sfolgorante da intimidire. Anche lei aveva gli occhi azzurri, come il ragazzo, che sembrava somigliarle un po’. In effetti, tutti quanti, adulti e bambini, sembravano assomigliarsi, come membri di un’unica bellissima progenie.

-La pace sia con voi. Il mio nome è Noor. Come possiamo aiutarvi?-

La ragazza parlò lentamente, in arabo, con qualche tentennamento, come se non fosse la sua lingua madre.

-La pace sia con voi. Mi chiamo Shereen, lei è Shilan. Siamo delle Forze Democratiche Siriane- rispose il sergente.

-Benvenute. Vi serve acqua? Cibo? Riposo?-

-In zona sono attive bande del Daesh. Voi da che parte state?- chiese Shereen, guardando gli uomini alle spalle di Noor, che assistevano alla conversazione come se li riguardasse poco.

-Noi… pensiamo ai fatti nostri- rispose Noor dopo averci riflettuto -Non cerchiamo guai-

-E i guai non sono mai venuti a cercare voi? Con tutta quest’acqua e questo cibo, e giovani robusti da arruolare? Mi sembra strano, sorellina. Chi comanda qui?- insistette Shereen.

Di nuovo Noor sembrò soppesare le domande.

-Qualcuno è venuto prima di voi-

-Chi?-

-Uomini- disse semplicemente Noor.

-E dove sono, ora?-

-Alcuni se ne sono andati. Altri sono ancora qui vicino, ma non ci danno più alcun fastidio-

Shereen si voltò a guardare Sam, giusto per verificare quanto entrambe fossero perplesse.

-Qualcuno può mostrarci dove sono appostati questi uomini nelle vicinanze?-

Noor si consultò brevemente con i suoi. Ragazzi e ragazze parlottarono in una lingua ancora più incomprensibile dell’arabo o del curdo, e che non suonava simile a nessuna delle due.

-Che stanno dicendo?- chiese Sam in inglese.

-Non ne ho idea-

Alla fine, Noor si rivolse di nuovo a Shereen.

-Va bene. Vi dirò tutto quello che sappiamo su quegli uomini. Venite, vi mostro qualcosa-

Face cenno di seguirle.

Sam guardò diffidente la piazza.

-Che facciamo?-

-Andiamo-

Sam saltò giù dal predellino e si avviò con Shereen verso la fontana. I bambini tornarono a giocare, disinteressandosi delle nuove venute, come i giovani, che lasciarono la noiosa incombenza di intrattenerle alla sola Noor.

-Dov’è la vostra moschea?- chiese Sam a Noor, quando la raggiunsero nella fresca ombra del pergolato.

-Non abbiamo una moschea- rispose serafica la bellissima ragazza.

-Cioè siete cristiani?-

-No-

La vasca di pietra della fontana era ampia una ventina di metri, perfettamente circolare, profonda abbastanza da permettere a un uomo adulto di immergersi fino ai fianchi. I bambini si tuffavano dal bordo nell’acqua cristallina, nuotando a cagnolino in allegra confusione. Sul fondo, piastrelle di pietra nera disegnavano due quadrati sovrapposti in modo da formare una stella a otto punte. Al centro della vasca, c’era un piedistallo monco, che sembrava tranciato da un’esplosione. L’acqua zampillava dalla roccia come da un fontanile semisommerso. Sul fondo, tutto attorno al piedistallo devastato, giacevano le membra di una antica statua calcarea. Sembravano appartenere a una divinità femminile, una via di mezzo tra una Venere neolitica e una dea sumera della fertilità, anche se pareva aver avuto alcuni arti di troppo, e non tutti umani, come una divinità indù.

-Sono stati gli uomini di cui parli a distruggere la statua?- chiese Shereen.

-Sì- rispose Noor.

-Hanno fatto del male a qualcuno?-

-Hanno ucciso due dei nostri uomini. E hanno fatto cose spiacevoli ad alcune di noi-

Noor le condusse oltre il pergolato, tra le case, in un cortile ombroso.

Sotto una tettoia era parcheggiato un pick up Toyota nero, con una mitragliatrice da postazione montata sul cassone, e una pallida scritta semi cancellata sulla portiera, che recitava Allah è l’unico Dio e Maometto è il Suo Profeta in eleganti caratteri arabi.

-Quello è del Daesh– disse Shereen, mettendo istintivamente mano alla pistola.

-Lo hanno lasciato qui. A noi non serve. Volete prenderlo voi?-

In effetti il pick up sembrava fermo da molto tempo. Aveva le ruote sgonfie e la mitragliatrice non ingrassata cominciava a dar segni di ruggine.

-Da quanto è qui?-

-Quattro anni, mi pare-

-E nessuno è mai venuto a riprenderlo?-

-Quelli che se ne sono andati, non sono più tornati-

La faccenda cominciava a farsi davvero strana.

-Dove sono appostati quelli che sono rimasti?- chiese Shereen saggiando le gomme del pick up con il piede.

-Sono a Niggur- rispose Noor.

-Cosa sarebbe un Niggur?-

-Niggur era una città, molto tempo fa-

-Si sono nascosti in uno scavo archeologico?- chiese Sam.

Noor si strinse nelle spalle.

-Sono lì e basta. E non se ne andranno. Niggur è a un’ora di cammino, oltre quella collina laggiù. Se volete vi ci posso accompagnare-

Sam si accostò a Shereen.

-Chiamiamo rinforzi?-

-Andiamo a vedere, prima. Male che vada, chiederemo supporto-

-Non vorrai far bombardare un sito archeologico?- ribatté Sam, contrariata.

-Non sapevi neanche dell’esistenza di questo posto, prima di sbatterci contro. Magari è solo un mucchio di sassi. Vedremo- disse Shereen mentre tornavano al mezzo.

Noor assistette alla conversazione in inglese restando educatamente in disparte.

Nella piazza, i giovani chiacchieravano nella loro incomprensibile lingua, ignorando l’HUMVEE come se nemmeno fosse lì. Sam aprì il portello posteriore facendo accomodare Noor. La ragazza guardò l’equipaggiamento a bordo con scarso interesse. Il sergente montò al posto di guida, e quando Sam fu salita, aggirarono il pergolato per imboccare un sentiero ancora più stretto della strada, che usciva dal villaggio addentrandosi tra i cespugli rigogliosi.

Sam studiò Noor nello specchietto retrovisore.

Era difficile non guardarla. La sua bellezza, come quella dei ragazzi al villaggio, aveva un’intensità magnetica, che metteva disagio. Sam era alta e bionda, e non si era mai sentita brutta. Fino a quel momento. Ma stare accanto a Noor era come entrare nel cono d’ombra di un magnifico corpo celeste, eclissandosi fino a sparire.

-E così non siete mussulmani e non siete cristiani- chiese per liberarsi dall’imbarazzo del silenzio -Siete yazidi?-

-No- rispose Noor con la solita, placida calma.

-Dove sono i vostri anziani? Ho visto solo giovani in giro-

-Gli anziani vivono altrove-

Sam e Shereen si scambiarono una nuova occhiata sospettosa. Le risposte di Noor suonavano sempre di una sincerità disarmante, come se non conoscesse il significato, o l’utilità, della menzogna. Sam decise di concentrarsi sulla ricognizione. Se c’erano degli uomini dell’ISIS appostati nelle vicinanze, non c’era da scherzare.

Il deserto rendeva onore al proprio nome con una immobilità da orizzonte marziano. L’HUMVEE impiegò meno di 15 minuti a raggiungere la cima delle colline. Noor indicò una deviazione, e Shereen svoltò inerpicandosi lungo il ripido crinale sassoso.

-Ci siamo- disse Noor quando raggiunsero un pianoro, appena sotto la cima.

Il sentiero terminava lì. A ridosso della pietraia, c’era un cartello di legno rinsecchito dal sole. La vernice logorata dal ruvido vento sabbioso rendeva la scritta in francese quasi illeggibile.

 

Fouilles Archeologiques de Niggur

Université de Damas

1930

 

Parcheggiarono il mezzo e scesero, le armi in pugno. Esaminando meglio la pietraia che formava la cima del colle, Sam notò che quelli che sembravano sassi, erano in realtà mattoni, frantumati dal caldo. L’intera cima era il cadavere mummificato di una città morta e quelle erano le sue mura.

-Questa è Niggur- disse Noor.

-Gli uomini sono qui?- chiese Shereen avvicinandosi alla sgangherata catasta di antichi mattoni.

-Sì. Sono dentro-

Sam cominciò ad arrampicarsi. Raggiunse la cima in pochi agili balzi, acquattandosi per sbirciare oltre il bordo. Gli scavi francesi avevano dissotterrato solo una parte del complesso, che per il resto era ancora sepolto sotto strati millenari di sabbia calcificata. C’era una scala che scendeva fino a un cortile, sul quale si affacciavano alcune porte di dimensioni ragguardevoli. L’interno degli edifici sembrava libero dai detriti. Un buon posto dove rintanarsi al riparo dai droni. Sam studiò le ombre immobili oltre gli architravi di pietra, in attesa del più piccolo cenno di presenza umana, prima di decidersi a scendere. Sentì alle proprie spalle Shereen che si arrampicava sulle mura diroccate.

-La nostra amica modella di lingerie non viene?- chiese quando il sergente le fu accanto.

-Dice che preferisce di no-

Il cortile polveroso sembrava piuttosto frequentato, anche se nessuna delle tracce nella sabbia era l’impronta di uno stivale. Erano impronte di zoccoli fessi, come quelli delle capre, ma troppo grandi anche per i robusti maschi della varietà allevata al villaggio. Dalle dimensioni, potevano appartenere a bestie della stazza di un bue. Anche la loro disposizione aveva qualcosa di strano, ma era difficile dirlo nella confusione generale. Come facessero poi dei bestioni a quattro zampe a scendere lungo la ripida scaletta, era impossibile da immaginare.

-La maggior parte punta da quella parte- disse Shereen indicando il varco più largo, un portone alto più di tre metri, l’architrave sostenuto da robusti pilastri di mattoni, in parte foderati da lastre di calcare rozzamente scolpite.

Sam ne sapeva abbastanza di cultura mediorientale da riconoscere l’arcaico stile accadico, anche se non aveva mai visto raffigurazioni simili. I re barbuti erano allineati con le teste coronate piegate, come schiavi, oppure si allontanavano carichi di frutti, in un mare di greggi. Qualunque cosa avesse premiato la loro sottomissione, era stata cancellata dalle scalpellate sacrileghe di qualche conquistatore.

-Strano che non li abbiano distrutti- mormorò Sam.

-Molto più strano che non abbiano rapito tutte le donne del villaggio per farne schiave- disse Shereen, accendendo la torcia.

-Credi che siano davvero qui?-

Shereen non rispose. Entrò per prima, la pistola in pugno. Sam accese la torcia sulla canna del fucile, puntandola in ogni angolo. Oltre il portale, alcuni gradini scendevano fino a un antro sostenuto da solidi pilastri. L’interno profumava di umidità e vegetazione. Molti passaggi si aprivano su tutti i lati, addentrandosi nel sottosuolo. L’eco sacrilega dei loro passi leggeri turbò appena il polveroso sonnecchiare del tempio. Sam avrebbe giurato che fossero sole. Finché non sentirono quel suono, come l’ultimo rantolare di una bestia in agonia. Sam guardò Shereen per essere certa di non averlo immaginato.

Il sergente puntò la torcia verso la piccola porta della cella principale.

-Viene da lì-

Le due ragazze si posizionarono ai lati opposti del vano. Sam tese l’orecchio: era proprio un gemito, debole, implorante. Contò con le dita fino a tre, strinse l’M16 e si affacciò, pronta ad aprire il fuoco. Ma il fucile non poteva proteggerla da quello che vide.

La volta, le pareti e il pavimento erano infestati di tentacoli legnosi carichi di foglie gonfie e pallide, come funghi cresciuti tra le tenebre, orrendamente irrorate di rosse venature, che pulsavano come vive arterie. Dal soffitto penzolavano undici giganteschi baccelli. Sam puntò la torcia.

Anche se così grottescamente deformato da essere difficile da riconoscere, la crisalide vegetale era il corpo di un uomo con una nera uniforme dell’ISIS. I tentacoli della pianta cucivano insieme le gambe, trapassavano pelle, muscoli e ossa, aprendosi la strada come vermi carnivori attraverso l’inguine e l’addome. Nei punti in cui la pelle straziata aveva ceduto, si protendevano all’esterno come radici dalla terra, generando nuove fioriture di germogli pulsanti. Le braccia, avvinghiate dai viticci, erano spezzate in angoli incongrui, impossibili per un arto umano, come le zampe segmentate di un artropode. Uno dei tentacoli, piantatosi all’altezza dei reni, aveva sfondato le costole, strisciando lungo il collo, per poi aprirsi la strada attraverso la pelle morbida appena sotto la mandibola barbuta. L’apice del ramo sbucava dalla bocca spalancata, germogliando in un fiore carnoso, che colava umori biancastri. Un altro fiore era nato nel cavo svuotato dell’orbita destra. L’occhio sinistro era spalancato. Guardava folle e implorante verso la luce della torcia di Sam, le lacrime insanguinate che colavano lungo la tempia. L’uomo esalò un gemito inarticolato, come se  tentasse di parlare.

Era ancora vivo. Lo erano tutti.

Sam sentì il fucile sfuggirle tra le dita, le forze risucchiate dal gorgo di quell’inspiegabile orrore. Si accorse appena di Shereen che la afferrava per la spalla, strattonandola con forza.

-Shilan. SAMANTAH!-

-Come possono essere vivi?– sussurrò Sam.

-Usciamo! VIA!-

Shereen la prese per il bavero della giacca, trascinandola verso il cortile.

Sam avrebbe voluto solo uscire più in fretta possibile, ma quando sentì raspare nella polvere da uno dei cunicoli laterali, il suo corpo scattò per propria iniziativa, senza che potesse far nulla per evitarlo. Puntò la torcia nel buio. E lo vide.

Strisciava a quattro zampe, grande abbastanza da muoversi con qualche difficoltà nei recessi tenebrosi del tempio sotterraneo. Sam riuscì solo a intuirne la forma umanoide, il manto nero lucido, le ginocchia retroflesse, le mani enormi. E le corna. Grandi, ricurve come quelle di un ariete, che spuntavano dalla fronte di un muso che conservava ancora il ricordo di un volto umano. La creatura fissò la luce della torcia con grandi occhi tondi, le pupille orizzontali come le capre, le iridi dello stesso inconfondibile azzurro di quelli di Noor e della gente del villaggio. E sorrise.

Fu allora che Sam cominciò a urlare. E a correre. Fuori dal tempio, su per la scala fino all’apice delle mura, e poi giù verso l’HUMVEE, dove Noor aspettava all’ombra, tranquilla come se nulla di strano stesse accadendo.

La luce del giorno e l’aria pulita del deserto colpirono Sam come uno schiaffo. Si voltò, terrorizzata all’idea di aver abbandonato o magari travolto Shereen nella sua fuga. Per fortuna il sergente era poco dietro di lei. Esangue, ma incolume.

-Dobbiamo andarcene- gridò -Dobbiamo andarcene ORA!-

Shereen la ignorò. Puntò la pistola in faccia a Noor.

-Quelli sarebbero gli uomini appostati qui?-

Noor le guardò entrambe, aggrottando la fronte.

-Non ho mai detto che erano appostati. Io ho detto che non sono più un pericolo per nessuno-

-Da… da quanto sono in quello stato?- balbettò Sam sorvegliano la cima delle mura, come se da un momento all’altro quell’essere cornuto dovesse affacciarsi per sorriderle di nuovo.

-Quattro anni, direi-

Sam crollò a terra. Non piangeva per paura da un sacco di tempo. Si sforzò di non farlo nemmeno ora.

-Ma come… è possibile?-

-Noi non uccidiamo nessuno- disse Noor, guardandola con un sorriso complice.

-Cosa gli è capitato?- chiese Shereen dopo essersi rovesciata in faccia mezza borraccia d’acqua.

-Sono stati molto irrispettosi. E così la Dispensatrice di Vita ha mandato gli anziani a prenderli. Quelli che sono scampati, non sono più tornati. Ma voi non avete nulla da temere. Siete venute in pace, e in pace potete restare, se volete. Oppure potete andarvene. Come i francesi. Come tutti gli altri- disse Noor con calma, come se la pistola ce l’avesse lei.

-E se invece chiedessi al supporto aereo di distruggere questo buco infernale?- sibilò Shereen, cercando con poco successo di non apparire scossa quanto era in realtà.

Noor si strinse nelle spalle.

-Io non lo farei, se fossi in voi. La Dispensatrice di Vita potrebbe considerarla una sfida. E, credimi, nessuno vorrebbe sfidarla-

Shereen fissò Noor negli occhi cristallini. Non mentiva. Il sergente abbassò la pistola.

-La Dispensatrice di Vita?- chiese Sam.

-Colei che nutre le greggi e rende floridi i raccolti. E che, a tempo debito, ci dona una nuova forma, nella quale servirla in eterno. Lei ha molti nomi. Gli antichi re la chiamavano il Capro Nero di Niggur, quando venivano ad adorarla. Nella nostra lingua noi la chiamiamo Shub-Niggurath-.

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Rickyreds
About

Scrivo per passione dall'età di 12 anni! (Leggo dall'età di 6, ma questo lo fanno tutti, quindi forse non vale la pena di sottolinearlo)

9 Comments

  1. Rickyreds
    Rickyreds

    Ti ringrazio! No, in effetti non conosco personalmente nessun curdo siriano. Mi sono documentato più che altro tramite social. Gli eventi sono ancora freschi perché ci siano libri esaustivi, anche se qualcosa ho trovato, in particolare sull’ISIS. Su Twitter seguo alcuni reporter locali siriani, in inglese, di un po’ tutti gli orientamenti politici, per farmi un’idea complessiva. Al momento non ho ancora deciso cosa postare, ma nel caso sarai il primo a saperlo! Ho pubblicato per conto mio un romanzo e una novella (di cui potrei forse pubblicare qualche estratto, una volta che avrò capito meglio come funziona la community). Nel frattempo, se ti interessa, contattami personalmente e ti dico dove reperirli.

    1. Rickyreds
      Rickyreds

      Ti ringrazio! No, in effetti non conosco personalmente nessun curdo siriano. Mi sono documentato più che altro tramite social. Gli eventi sono ancora freschi perché ci siano libri esaustivi, anche se qualcosa ho trovato, in particolare sull’ISIS. Su Twitter seguo alcuni reporter locali siriani, in inglese, di un po’ tutti gli orientamenti politici, per farmi un’idea complessiva. Al momento non ho ancora deciso cosa postare, ma nel caso sarai il primo a saperlo! Ho pubblicato per conto mio un romanzo e una novella (di cui potrei forse pubblicare qualche estratto, una volta che avrò capito meglio come funziona la community). Nel frattempo, se ti interessa, contattami personalmente e ti dico dove reperirli.

  2. Alcano
    Alcano

    “…quindi probabilmente non sarà la cosa più originale che abbiate mai letto”…
    Invece lo è. Voglio che tu sappia quanta ammirazione trasuda da questo mio giudizio, essendo io un vero patito di Lovecraft, e ritengo che il premio di quella giuria (senza nulla togliere agli altri racconti, che non ho letto) sia stato corretto. Puntualmente ben scritto, incuneato nella quotidianità di una guerra senza fine apparente, spunta il richiamo all’alieno, all’ignoto, all’arcaica divinità ctonia dell’inizio e della fine. Bello anche il richiamo dantesco del contrappasso e del giudizio delle proprie azioni.
    Wow…e non dico altro!


  3. Ciao, era doveroso rendere la cortesia e ho letto con molto piacere questo tuo bel racconto. Devo dire che il premio che hai ricevuto è ampiamente meritato e il richiamo a Lovercraft (dissentendo dal tuo giudizio) ben inserito in un contesto assoòutamente originale. D’altra parte rendere omaggio a un altro grande come Lovercraft credo sia, per gli appassionati del genere, un esercizio obbligato. Ancora complimenti e buon proseguimento di giornata.