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Il fiume Abraxa correva tormentato nel suo percorso iniziale, seguendo forre color ocra e sabbia che scendevano tortuose e glabre dalla sorgente sui monti Foerark.
Dopo le quali, parecchi chilometri più a valle, nutrito da altri rivoli provenienti da settentrione lungo le falde del monte Ryedor e da est con le acque degli affluenti Aldardeea e Syrya, precipitava attraverso strette pareti di roccia nuda e aspra che ne imbrigliavano le acque, aumentandone la forza. Poi rapide e cascate lo facevano schiumare d’ira mentre si contorceva frantumandosi contro le rocce rese taglienti e levigate dal suo passaggio, dissolvendo in una sottile bruma biancastra.
Invece, finito quel Purgatorio, affondando nella piana di Aquilonia, il fiume si quietava e, come un pasciuto signorotto, scorreva lento qua e là, dividendosi in decine di rigagnoli più minuti e capillari che formavano piccoli acquitrini punteggiati di intricate trine di erba-sega e di canna di palude, che, coi loro steli lunghi e sottili, svettavano sui prati acquosi di poligoni anfibi, brasca, ranuncoli e ninfee dai cento colori.
Spesso capitava che queste acque ristagnassero in piccole polle limpide, donando agli animali che risiedevano nella zona acqua in abbondanza e in ogni stagione. Per lo stesso motivo, quel giorno di ottobre, alcuni cacciatori si erano accampati lungo i bordi di uno di questi laghetti, attendendo l’arrivo del branco di cervi più grande della regione che veniva a dissetarsi ogni mattina proprio in quel luogo.
“Diamine Gorr, speriamo di riuscire ad acchiappare il grande maschio Hull, il Portatore del Palco. Che cattura sarebbe questa. Te lo immagini, tornare ad Aquilonia con una così preziosa preda?”
Gorr non rispose, ma si alzò dal suo addiaccio intorno al focolare che ardeva spavaldo nel buio, spandendo ormai intorno a sé solo luce tenue e il calore sufficiente a impedire che i tre bracconieri si gelassero le misere ossa nel freddo dell’autunno denebiano. Prese un ciocco dal mucchio e lo sacrificò alla fame delle fiamme che, rinvigorite dall’offerta, si alzarono e crepitarono felici.
“Cosa me ne faccio della misera carità della città di Aquilonia quando avrò l’intero impero di Deneb la Grande ai miei piedi? Se in decine di anni, nessuno è riuscito a incatenare Hull è perché quel dannato cervo non è un animale ma un demone sotto mentite spoglie. La sua pelle e il suo immenso palco vellutato, da soli, valgono dieci borse d’oro, se non di più. Per le sue ossa poi ho già un cliente in Cairo il farmacista e della sua carne decine di ristoranti mi hanno chiesto l’esclusiva. Quell’animale vale quanto un intero bordello styriano!”
Così dicendo gli occhi dell’omone barbuto brillarono di una luce sinistra e lussuriosa, amplificata dalle fiammelle che uscivano dalla pira ardente e si spandevano come fatine tutt’intorno.
A est, nel frattempo, una delicata luce rossastra cominciava a contendere al buio lo spazio nel cielo, riuscendo, via via che questo riluttante si ritraeva a occidente, ad illuminare la catena dei monti Foerark.
“È quasi giorno. Gornag, alza la tua pesante carcassa dal comodo giaciglio e vai a controllare i lacci!”
L’altro, un giovane ragazzo biondo, bofonchiò qualcosa sottovoce ma, con una lena inaspettata, si diresse verso l’acqua.
“Riesco a malapena a scorgere dove posare i miei passi, figurare se posso esaminare quei sottili lacci nascosti nella vegetazione!”
Anche l’ultimo dei tre, Pohrr Pezzo di Ferro, che doveva il suo soprannome all’innaturale forza fisica, si levò in piedi e si sgranchì le membra intorpidite del freddo. Era un ragazzone muscoloso con un viso aperto circondato da un guizzo di capelli neri.
“Credo che andrò anch’io con lui, non voglio che rovini tutto il lavoro che abbiamo fatto ieri sera o che magari lo si ritrovi appeso a una di quelle trappole!”
“Vai pure, ma non essere irrispettoso con Gornag: è pur sempre mio figlio”.
Ora che Gorr era solo si guardò intorno. La leggera foschia mattutina si stava alzando lenta e la verde foresta alle sue spalle stava mostrando il suo vero aspetto. Non era più il cupo vestibolo delle loro paure, ammantato del nero della notte ma solo una rigogliosa e verdeggiante selva. Qualcos’altro però attirò la sua attenzione.
Spirali barocche di nuvole scure si stavano ergendo prepotenti nel primo cielo mattutino, e Gorr trovò la cosa alquanto strana. Sembravano innaturalmente avere unica origine dietro il monte Ryedor, come se un’immensa e fumante pira fosse stata accesa il quel luogo, originando primamente una stretta colonna nera che poi, via via, dipartiva nelle eleganti volute.
“Cosa diavolo sta succedendo?” Chiese tra sé il cacciatore.
Passò il tempo ammirando lo strano fenomeno che si allargava sempre più. Era bello a vedere, quegli avvolgimenti sottili riflettevano l’alba traslucida e l’inglobavano nel loro scuro essere, ma altrettanto era inquietante.
“Quale strano fatto è questo?” la voce di Gornag alle sue spalle lo fece sobbalzare di sorpresa.
“Non ne ho idea, anche se lo sto guardando da tempo. Cresce!” Rispose il bracconiere senza distogliere lo sguardo affascinato da quelle volute eteree.
“Sembra quasi che abbia origine nelle terre di Gundurang, oltre la vetta del Ryedor selvaggio” disse Gorr. Poi anche Pohrr Pezzo di Ferro, si unì alla coppia, naso al cielo. Guardò attento quell’avviluppo di nubi e mise mano alla spada che aveva agganciato al cinturone, la sfoderò e la puntò in direzione degli strani cirri. Il sole già di un giallo acceso balenò i suoi riflessi nella lama di quell’epico ferro: esso infatti era Graeting, la Mutilatrice, la spada migliore dell’intera regione e di tutte le terre a est di Deneb. Come, un bracconiere come lui era, ne fosse entrato in possesso era ancora una questione aperte nelle taverne di Aquilonia. C’era chi giurava che Pohrr l’avesse vinta ai dadi, altri asserivano che l’avesse presa dalle fredde mani del suo precedente proprietario dopo averlo ucciso. Invero nessuno ne aveva idea e lui ben si guardava del togliere alcun dubbio. Tutto il gran parlarne, oltre alla sua eccezionale forza fisica, avevano creato un’aura di mistero e di timore intorno a lui, e questo gli stava benissimo!
“Cosa fai, sciocco” derise Gornag” hai forse intenzione di muovere guerra alle nubi nel cielo?”
“Ho già sentito di un fenomeno simile, me lo raccontò mio nonno negli anni in cui era ancora lucido di comprendonio. A lui, a suo dire, l’aveva narrato suo bisnonno che l’aveva imparato da un suo avo”.
Si fermò, quasi stesse soppesando l’assurdità di quello che la sua mente stava pensando in quel momento.
“Allora bestione,” urlò Gorr” cosa diavolo è quella cosa?”
“Il Male…il Male assoluto!”
“Per ADonar, Pohrr si può sapere di cosa vai cianciando?” Rintuzzò Gorr “Come fai a sapere che, nascosto da quel gruppo di nubi eleganti, esiste così tanta malvagità?” Il tono dell’omone era quasi ironico, infatti un piccolo sorriso malizioso mosse leggermente l’angolo destro della sua bocca. Solo per un istante, sufficiente però a che Pohrr se ne avvedesse.
“Sempre, nei racconti di mio nonno, questo era il segnale dell’inizio della fine. La fiaccola tetra che da est sorge, come un alto albero evolve e il male preannuncia!”
“E chi ti dice che sia lo stesso ammonimento? Io e mio figlio Gornag siamo nati ad Aquilonia e non abbiamo mai visto o udito nulla di simile”.
“Possibile che non ci arrivi? Eppure quel vecchio ubriacone, solo qualche sera fa, ce ne ha fornito un resoconto, forse un po’ troppo romanzato ma assolutamente veritiero; forse non ne hai memoria, troppo affondano nelle paludi del tempo questi avvenimenti. Io anche, se non ne avessi avuto notizia come tradizione familiare, ne sarei all’oscuro. Era la Guerra del Crepuscolo, la suprema battaglia. Un giorno un grande re arrivò dalle terre australi, al suo seguito aveva possenti eserciti e creature con la pelle dura come il ferro che sbuffavano caldi vapori opachi, poi olifanti bardati da battaglia, strani cavalli a sei zampe grossi come tori e altre cose che camminavano, strisciavano e volavano. Il suo nome eraMantulail Lercio”.
“Ora che lo racconti, mi sembra di ricordare un’eco, solo una leggenda paurosa da raccontare ai bambini riluttanti ad andare a dormire; non dirmi che un uomo grande e grosso come te crede a queste fandonie!” Disse Gorr arricciando la fronte.
Il ragazzo rispose: “Questo che ti dico è vero, non è la visione di una mente obnubilata dalla birra: Mio nonno diceva che quanto di peggio nel suo esercito erano i Fanti Esecrabili: essi chiamavano sé stessi Hor-Ka. Uomini colossali, neri come la pece, con occhi pallidi grandi come fanali, capelli crespi e nasi tanto schiacciati che parevano essere solo una fessura. Indossavano pesanti armature fatte di spesso cuoio rifinito con borchie di rame e di oro e punte e speroni fatti con corna d’animale. Tutto per darsi un aspetto ancora più minaccioso e selvaggio. Arrivarono dalle terre riarse oltre il Piccolo Mare Interno, a sud delle terre di Vesperia la Corrotta, approfittando dell’ignominia del re che governava quell’infelice regione, il pavido re Renzhum e della sua congrega di cortigiani deboli. Altre regioni della zona resistevano alle continue invasioni degli Hor-Ka ma fu solo grazie ai re dei vesperiani che essi ruppero il fronte e ci invasero. Non volevano sottometterci, e neppure farci schiavi, volevano annientarci, distruggerci, per prendere le nostre terre e ogni altro nostro bene ricavato con fatica. Volevano unicamente sostituire ogni singolo a’rethiano con un hor-Ka!”
Intanto che Pohrr narrava un pesante afrore di morte si materializzava, prima debole, quasi impercettibile, poi talmente forte che i tre abitanti delle terre denebiane ebbero quasi un mancamento. Le nubi, inconsistenti ed eteree, si schiacciarono al suolo, acquistando solidità e si mossero verso di loro. Si poteva notare in lontananza come al loro passaggio, niente era più come prima. Le pendici dei monti Ryedor e Forr, prima verdeggianti, erano divenuti bubboni spogli e cupi, nulla pareva essere più in vita, come se, il pesante alito di un demone avesse riarso l’intera zona. Il vento, che prima spettinava giocoso le chiome degli alberi, ora alzava verso il cielo colonne di fumo nero che venivano dai mozziconi di quella che poco prima era la foresta di Breethe.
Le acque del fiume Abraxa divennero nere come la pece. Dal monte, che ne era madre, il liquido si riversava in basso, inquinato della stessa materia del Male supremo, come l’aveva chiamato Pohrr, e correva verso la piana disperdendo il triste contagio. I pesci morivano, le radici delle piante seccavano. Soffocanti miasmi cominciarono a sollevarsi dall’acqua che, prima portatrice di vita, era divenuta un imbevibile veleno, viscoso e maleodorante. Gli uccelli e gli animali che, a causa della sete, tentavano di bere dalle pozze meno torbide, perdevano il senno e si dibattevano come pazzi, incespicando a destra e a sinistra, sbattendo gli uni contro gli altri oppure contro i tronchi degli alberi, per poi morire in agonia poco dopo.
“Dobbiamo avvertire del pericolo la gente di Aquilonia” Urlò Pohrr slegando il suo destriero. Questo, in preda al terrore, stava dando forti strattoni alle briglie che lo tenevano legato a un grosso pioppo. Lo stesso fecero gli altri coi loro, poi li montarono a pelo, per la fretta e li spronarono a correre verso la città. Percorsero ben poca strada quando, improvvisamente il cielo intorno a loro divenne scuro. Qualcosa di immenso si era frapposto tra il sole e i cavalli dei tre che correvano disperati con quanto fiato avevano nei polmoni.
Gornag si voltò spaventato verso la Cosa, mentre il suo puledro baio, lingua di fuori, tentava di sfuggirla. “È un drago!” Urlò disperato.
Pareva uno di quegli aquiloni che usano i ragazzini per divertirsi durante le giornate ventose. Solo che adesso non c’era più vento e quella cosa che volava verso di loro era mille volte più grande, e minacciosa. Un rumore basso riempì la pianura, come un respiro profondo e persistente, il pesante alito della creatura volante stava ammorbando l’intera zona con il suo odore aspro e oleoso. Librava discreta nell’aria. Non si udiva alcun battito dalle lunghe ali nere, solo il suo vibrante respiro, Pareva che a sospingerla fosse soltanto la sua coda fiammeggiante e la strana scia biancastra che essa lasciava nel cielo. Il suo corpo era ricoperto da centinaia di squame iridescenti a forma di losanga che le infondevano un aspetto metallico. Il muso era caratterizzato da fauci enormi, costellate da denti affilati e lunghi, e da occhi rossastri, mentre sulla testa comparivano un paio di corte e dritte protuberanze ossee, probabilmente delle corna.
Così anche Pohrr distolse lo sguardo dalla strada e lo fissò sulla strana cosa che li seguiva.
“Non dire sciocchezze, ragazzo, i draghi non esistono più.” Replico Pohrr “Anche se questa bestia certo non è meno pericolosa. Quella è una Fenice Coda di Fuoco”.
Non seppe neppure lui da dove prese quel nome, forse dai racconti di suo nonno. Questo gli fece venire in mente qualcos’altro che aveva udito narrare dal vecchio guerriero riguardo quella malvagia creatura mitologica.
Dovete sapere che quel sentiero che stavano percorrendo a tutta velocità costeggiava il fiume Abraxa che in quel tratto si era fatto più vivace e profondo, allargando i propri argini poco prima di raggiungere la diga di Aquilonia.
Qualcosa si staccò dal ventre del mostro, come un uovo grosso e scuro, e precipitò verso terra. Fu un istante perché Pohrr decidesse il da farsi. Prese un potente respiro e con un balzo si staccò dal suo destriero per lanciarsi con un gran tuffo in quelle fredde acque. Dopo il gran tramestio iniziale, tutto intorno divenne azzurro e silenzioso mentre lui lottava con ogni sua forza per andare il più profondo possibile. D’improvviso l’azzurro divenne arancione, e caldo. Molto caldo. Tanto che la sua pelle cominciò a bruciargli addosso. Ma resistette e si distese sul letto del fiume, guardando terrorizzato le bolle che si formavano sopra di lui per il gran calore. Fortunatamente era un uomo fuori dal comune; resistette abbastanza. Dopo qualche minuto, tutto tornò come prima. Attese ancora, il fiato non gli veniva meno e i polmoni conservavano un alito d’aria. Finché anche questa terminò e Pohrr dovette emergere, sbuffando.
Lo spettacolo che lo attendeva era sconvolgente. Dopo la sua missione di morte Fenice Coda di Fuoco aveva compiuto una larga virata e stava tornando al suo nido, con la parte posteriore che fiammava riflessi giallastri e i bordi delle spesse ali che formavano strani mulinelli d’aria. Tutt’intorno a Pohrr non v’era più nulla, solo crepitanti ceppi, pesci morti e i resti fumanti dei suoi amici e delle loro cavalcature, spolpati dal gran calore. L’acqua, ancora calda, cominciò a ingrigirsi mescendosi con quella inquinata che arrivava dai monti. Uscì nuotando quanto più velocemente gli fu possibile, e per poco il Buio non lo colse. Si distese stremato sulla riva del corso d’acqua ormai completamente cenerino e puzzolente. Quella che prima era verde erba scricchiolò sotto il suo peso, sfaldandosi in cenere. Si guardò intorno, incredulo, senza ben comprendere quanto era successo; solo la memoria delle storie di suo nonno gli avevano salvato la vita ma adesso non sapeva più che fare. E i restanti brandelli di memoria non prospettavano nulla di buono.Mantulaera stato ucciso, questo lo rimembrava bene, anche se il suo bizzarro parente sosteneva che egli sarebbe tornato prima o poi, sotto forma di demone. Evidentemente i tempi erano pronti per il suo ritorno. Questa prospettiva terrorizzò Pohrr Pezzo di Ferro.
Ma adesso era stanco e ferito, stremato dalla prova estrema si lasciò andare sul terreno secco e cadde preda di un sonno profondo. Forse fu meglio così, perché, alcuni minuti dopo un’ombra cupa si dipinse sul suo corpo privo di sensi.

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