Se una notte sentite del rumore, che fate? Uscite, andate a controllare chi è che fa questo chiasso. Non vi mettete niente addosso, ci andate in mutande. Proprio così, anche se fate ridere tutti. E la camicia non la mettete perché avete caldo. Non si vede nessuno, in condominio. Tutti sono nelle loro tane. Chi s’è già addormentato, chi non chiude occhio e si legge il giornale, con i fatti che si son già verificati, e ne si prende atto sul far della sera. Io vado da Ranocchio, perché lui che fa? Si vede un film, alla televisione, si fa la sua cultura cinematografica, e non dà noia a nessuno.
– Ranocchio!- , gli faccio quando mi ha già aperto.
– Che vuoi, Flanella?-
– Mi chiamo Roccia, non te l’hanno detto gli altri?-
– Se ti piace il tuo nuovo nome, Roccia, fai un po tu. Io stavo a mangiare due spaghetti all’aglio e olio, vuoi favorire?-
– L’ho già riempita la pancia, ma grazie. Mi puoi dire chi è che fa questo rumore?-
– E’Villetta, l’orologiaio del terzo piano. La moglie l’ha cornificato.-
– Ma senti un po’!-
– E sai con chi? Con Mascherina.-
– Lo possano ammazzare, quel delinquente. Mi stava a portare via il portafogli pure a me, ci credi?-
– Ti credo sì. A me l’ha fatto due volte, ma c’ho paura a dargli quel che si merita.-
– A me non m’ha fatto niente, che s’azzardasse. Ma lo punisco io. Il Villetta, quel santuomo.
– Tutti i regali che ha fatto a quella non me lo far dire.-
– Eh, quella è la Vittorina, e chi la cambia.-
E assonnato, ma c’ha due occhi che ci vedono bene, riconosce un amico e sa dove si trova. Sono io che quando bevo non capisco più niente. Ma ho solo un bicchier di vino in corpo, ho digerito un pezzo di formaggio che se no non mi andava più giù e mi restava sopra.
– E che ha fatto, Patrizio?-
Patrizio Villetta. Ma chi non lo chiamava per cognome, era perché non ci aveva confidenza.E chi lo chiamava Patrizio, credeva di poter dire di conoscerlo, ma i veri amici eravamo noi.
– S’è infuriato. Gli ha fatto fare le foto da Capoccia.-
– Le voglio vedere, se no non credo.-
– Io credo, credo. La Vittorina è una…-
– Si sa, si sa. Non dirlo, che ne ho conosciute fin troppe.-
– La Gisella.-
– Non me la nominare. Se penso che si chiama come mia sorella.-
– C’è chi le confonde, nel quartiere.-
– Dimmi chi, e ci parlo io, con questi cretini. Mia sorella è illibata.-
– Ci credo. Non ce la fai mai vedere.-
– Non è roba per voi.-
– Sai tu chi la sposerà, Flanella.-
– Roccia mi chiamo ora! Il Roccia!-
– Roccia, fammi dormire, che ho gli occhi che mi si affossano.-
– Dormi Ranocchio, dormi che ti fa bene! Io vado su.-
Son tutti pieni di alberi, le strade della mia città. Li vedo dal finestrino, e so che un po’ d’aria pulita la respiro. Giusto un poco. L’aria che mi arriva, ragazzi, che vi devo dire. Mi porta una zaffata, sto cretino qua davanti. Ma so che ne butto tanto anch’io, qua dietro, e c’è chi soffoca come me, e un po’ posso dire che non sono solo. Porto quei robusti pezzi di ferro che montati assieme formano una struttura. Scendo dal mezzo, e aiuto Granchio e Palombo a montarla, e qualche volta c’è qualcuno nuovo. Il nome non glielo chiedo, perché tanto non lo si vedrà più. Quando si sente la fatica, si scappa. E questo nuovo collega lo si vedrò poco. Io, il Roccia, no. Fino a che qualcuno mi dirà:
– Hai finito di sudare, Roccia.-
Allora sarà finita. Prima li contavo, i miei giorni di lavoro. Ma a che serve? Quando è arrivato il tuo momento, è arrivato. Torni a casa, e mangi, e fai quel che vuoi. E il giorno dopo fai la spesa, e mangi, e bevi, e fai quello che vuoi. E’finita. Si sta a casa. Si esce, ma per andare dove si vuole. Sono ancora lontani quei giorni, ma li sogno già. E l’unico sogno che mi accompagna nel sonno. Se dormo. Perché quello che è successo a Patrizio Villetta mi ha fatto uscire sul pianerottolo.
Mi ha fatto bussare a Ranocchio. Mi ha messo curiosità. E immagino che Villetta non dorme. Sta gridando ancora, povero cervo cornuto.
– Donna che chi ti ha creato ti ripigliasse! Ma come ti ho conosciuto?-
– Ti ha accalappiato che c’ero anch’io, grullo.-
– Roccia, ti ci metti pure te? E vieni!-
Arrabbiato che quasi gli scoppia una vena, mi fa entrare, e solo allora chiude la porta.
Basta un solo amico quando ci si pensa, che ne basta uno. Soltanto che lo scandalo si preferisce credere di averlo fatto con le grida, quando sono i fatti della moglie che parlano così velocemente che non salvi la faccia così come non hai salvato la consorte dalla fuga.
– Non le ho mai dato tutto ciò che voleva, Raimondo?-
– Le hai dato tutto e pure più.-
– Una viziata.-
– Ora li paga qualcun altro i suoi vizi. Pensa ai soldi, per una volta.-
– Tu ci pensi sempre.-
– Tu mai, e chissà quanto avrai dato al Capoccia.-
– Già lo sai?-
– Le voglio pure vedere.-
– Ma già si sa?-
– Lo hai gridato pure, Patrizio. Ai quattro venti.-
– Un momento di debolezza.-
– Chiamalo un momento. La Fabrizia stava per chiamare i carabinieri, che non riusciva a prender sonno.-
– Figuriamoci se dorme, la vecchia.-
– Quel che fa, fa. Patrizio, hai fatto svegliare anche me. Sono pure in mutande.-
– Vieni a vedere, vieni a vedere, Raimondo.-
Vengo a vedere. Sono qui per questo. Tutte le voglio vedere, e se n’è fatte sviluppare tante.
Vittorina che l’abbraccia, che lo bacia, che lo divora. Mascherina che la prende, l’avvolge, la ingoia. Tante fotografie da riempire un album, e col tempo lo farà, Patrizio sadico e masochista.
Sadico che me le fa vedere, e sa quanto la mia lingua è lunga. Masochista come pochi, se le rivede, e sembra che le vede ora per la prima volta. Le sfoglia una a una, sceglie quelle secondo lui più compromettenti. Ma non ce n’è una che non sia oscena, una che faccia pensare ad un’altra Vittorina che non sia la donnaccia che è. Anche da lontano si vede che il rossetto meriterebbe un’altra passata, su quelle labbra che devono avere tanto donato.
Ranocchio mi ha detto che Capoccia gliele ha consegnate una settimana fa. Ora sentite cosa arriva a fare il maschio ferito quando è pure grullo. Me le commenta, quasi fossero foto d’arte.
– Qui ha la maglia che si mise quando andammo a Sorrento.-
– Hai buona memoria.-
– E qui la collana che le ha regalato mia madre!-
– Che brava suocera.-
– Mi ascolti?-
– Sono tutto occhi e tutto orecchi, Patrizio. Ma basta coi ricordi, o inizierai a chiamarmi Flanella.-
Mi chiamavo Flanella quando ero io a gridare nei corridoi, e dormivo per strada. Un altro tempo che non è questo. Non so perché ci penso proprio ora ai miei nomi, ma forse è perché, una volta avuto per un periodo di qualsiasi durata, ti restano affissi. Sul perché ne ho avuti così tanti, mi rispondo dicendomi di aver incontrato tante persone ora, tutte diverse, e che ognuna vedendomi diversamente, si rapportava a me in modo inuguale. E allora nasce un epiteto, ora un appellativo, ora uno pseudonimo. Nomi. I miei nomi.
– Basta coi ricordi, Raimondo. Basta, basta, basta!-
– Bastava una volta.-
– Cosa?-
– Basta.-
– Sono nervoso, Flanella.-
– Basta Flanella! Sono Raimondo il Roccia!-
– Non ti chiamavi così?-
E dai. Succede a chi non ha un solo nome, e io ne ho avuti più d’uno perché ho avuto varie vite.
Resta ora da non sprecare pure questa. E la vita numero sei, quella che mi vede in mutande di fronte ad un amico arrabbiato che fa diventare paonazzo pure da calmo che sono. E già qualche ora sprecata. Nella vita numero uno ero piccolo, non ricordo un qualcosa. Nella seconda ero ragazzo, e non badavo a ricordare. Nella terza, ero alla naja. Ora non cè più, allora c’era e si doveva marciare.
Vita quattro: Ermelinda. Non l’unica mia femmina, ma quella che vale una vita. Ho vissuto una quinta volta, ma l’ho passata sul furgone, e la strada è lunga per dirla tutta. Vita numero sei, è passato tanto tempo. Settima vita, questa. Se non piace la mia, si badi alla propria.
Rincasai dopo averle viste tutte. Romeo Capoccia deve avere incassato una fortuna. Lui stampa le foto. Apri la porta della sua bottega, e ti chiede subito cosa riguardano, come se dovesse interessargli. E tu glielo dici, come se fosse necessario. È la sua forza, credo. Ce ne sono tanti, ma Capoccia è lunico a trattare i clienti come se li conoscesse, e fa i soldi così.
– Cosa stampiamo oggi, signore?-
– Cosa si stampa è cosa che non la riguarda.-
– Forse no, ma dovrà vedere, no?-
– Vedrò, vedrò. Sono dieci foto.-
– Non tante.-
– Se parla ancora, non credo che ne vedrà altre.-
– Non vorrà andare da altri, sono io il migliore.-
Lo credeva, e forse lo era. Il mio rullino uscì perfetto. Ogni piccolo rettangolo era privo d’ogni difetto, e mostrava Ermelinda ed io a casa di lei. Nulla di osceno. Ermelinda senza vesti era pura natura, e la natura non è fuori da nessuno scenario che non sia il mondo in tutta la sua bellezza.
Erano foto belle. Non le feci vedere a nessuno. Dieci foto, dieci momenti. La terza foto è quella che ritrae quattro amici. Raimondo Cherubissi non è ancora Flanella, e si sente forte come una roccia, pur non facendosi chiamare ancora così. Non era tempo di soprannomi, ma di giovinezza e sincerità. Donato Faccini era già Ranocchio però. Odiava i rospi, quindi fu chiamato così per cattiveria di chi lo inventò, e non fui io. Forse glielo ha dato Aldo questo connotato anfibio. Chiamandolo così, gli si nominava un animale che odiava, e gli si faceva intendere che lui stesso aveva di che schifarsi quando si guardava allo specchio. Ma Donato accettò Ranocchio come secondo nome, perché sapeva che avrebbe scoperto il primo che glielo avesse dato. Scoperto, lo avrebbe ripudiato dalla sua cerchia d’amici, per sempre. E gli altri continuassero a chiamarlo così. Ormai la città tutta lo conosceva come Ranocchio. Una volta mi spiegò il suo strano punto di vista:
– Raimondo, se uno mi chiama Ranocchio bonariamente, non mi dà fastidio, e non penso ad una rana. Ma se lui mi chiama così, so che lui pensa a me come una rana, e non posso sopportarlo.-
– Non farti chiamare più così.-
– E ormai chi me lo leva.-
– Se lui ti chiama così, e tu sai chi è…-
– Non senti anche tu come lo pronuncia con godimento?-
Michele Nicodemi era l’infame. Terza foto su dieci, quarto amico su quattro, l’ultimo a destra. Tutti ci mettiamo le braccia sulle spalle, formando un cerchio confidenziale che non c’è più. Io abbraccio con amore Ermelinda Spaziani, la donna della mia quarta vita; lei accoglie sotto l’ascella Ranocchio, che si appoggia a Michele pensandolo amico. Ma Michele Nicodemi è, e sempre sarà, Mascherina il Falso. Ermelinda, lei era una persona vera. Faceva parte di un mondo semplice, che era quello che c’era attorno a noi. Sorrideva sempre come fosse la sua unica espressione possibile quella allegra, e ci sorrideva facendoci sorridere, noi che ridevamo poco. Ci dava amicizia femminile, e io mi presi molto di più, in un leale confronto che non vedeva avversari. Fu la mia donna con una facilità che mi sorprese. Michele non la considerava neppure, e Ranocchio in fondo meritava quel nome, pur essendo un caro ragazzo. Ma Mascherina dovette il suo nome a quell’estate, e guai a chi non lo chiama così. Fingendo di non volerla, la bramava, e in segreto immagino spargesse molta bava, come un affamato di fronte ad un banchetto di carne alla brace. La circuì, e la ingabbiò. Ma era una gabbia di noia cui lei si liberò. Abile saldatrice, spezzò la rete d’acciaio delle sue bugie spavalde. Con intelligenza, scelse fra noi chi amare. E scelse me, Raimondo.
Fu un tempo felice, e durò molto. Non vi fu mai nessuno screzio, ma il rapporto finì come termina lo stoppino delle candele accese. Di questa quarta vita, non dico tutto, perché molto è solo mio.
Ma quel che feci a Mascherina fu storico.
– Sei bella, Ermelinda.-
– E tu, Michele, sei scemo.-
– Il tuo nome lungo è lungo come sono affusolate le tue gambe.-
– Le guardi, allora.-
– Molto, molto, molto!-
E rise. Ed Ermelinda sorrise. E io, appollaiato in disparte come uno stupido avvoltoio, non risi.
– Fammele toccare.-
– Sei troppo scemo.-
– Fammele sfiorare!-
E le mise una mano sul ginocchio. Niente di grave, se ci penso adesso, ma mi salì il sangue alle tempie. Forse nascono così le corna. Sale il sangue alla testa, si aggruma, esplode, e due piccoli vulcani si solidificano, e sei un diavolo di rabbia.
– Bella mascherina che sei, Michele! Prima mi dici che è troppo pallida per te, che tu desideri una donna abbronzata, e io t’ascolto. Poi che è troppo allegra, e tu la vuoi spenta, per accenderla tu.E io t’ho ascoltato e mi sono detto: allora è mia questa Ermelinda.-
Ermelinda si sentiva colpevole e colta in flagrante, quando era innocente e non c’era nessuna flagranza che non fosse la mano di Michele sul suo ginocchio. Forse se avesse avuto uno sguardo di compiacimento. Se si fosse avvicinata per tentare di baciarlo. Se avesse riso. Ma era solo imbarazzata come una bagnante circondata da pittori assetati di una nuda fonte d’ispirazione da avere senza permesso. E poi non era così mia che potessi imporle alcunché. Se voleva Michele, che se lo prendesse. Ma voleva me, e allora non potevo stare con le mani in mano. La mano di Michele aveva scelto la sua posizione. Toccava alla mia. Si chiuse, e divenne un pugno che non scagliai.
Eravamo presso un viale alberato, così mi ricordai degli spiacevoli screzi che avvenivano quando i bisogni dei cani non venivano raccolti dai padroni. Ne raccolsi uno di un cane che non era mio.
Uno schifo davvero. Ma usai una busta abbandonata per non lordarmi. Faceva schifo comunque, ma cercai di tenere lontano il naso. Speravo solo che la gente dietro a me non rivelasse la mia presenza con un commento a voce alta.
– Che cosa fa signore?-
– Guardate cosa ha preso!-
– Con che coraggio!-
– Cosa fa!-
– Mamma, cosa ci fa cacca di cane in mano al signore?-
Cara gente fra quella che stette zitta e in ascolto, vi ricordo ancora, e vi ringrazio per non aver detto nulla di nulla. Ma tanti altri parlarono, e mi additavano, e mi riempivano di vergogna.
– Mamma, cacca!-
Gliel’avevo lanciato, l’escremento. Con tutta la busta.
– Prendi, Mascherina!-
E la prese in piena faccia. Temevo colpisse Ermelinda, ma rischiai. Lei non rise, finché non capì di cosa si trattava. Si girò verso di me, mi corse incontro, e allora ne ridemmo insieme.
Ogni tanto me ne ricordo, e rido nella notte. La scena si ripete nella mia memoria con limpida chiarezza, e ne godo ancora il piacere. Fu uno scherzo cattivo, ma credo meritato.
Si alzò piangendo come un bambino, colmo di rabbia. Mi aveva davanti, ma il suo odio era tale per l’escremento che l’aveva imbrattato, che non ne aveva per me. La poca gente che assistette al fatto ne riferì a chi conosceva. Chi veniva informato, raccontava ad altri. Presto fu un fatto che, senza esser stampato su carta, fu noto a tutti. Di chi si parlava, fu il giallo che appassiona la città.
Chi fosse la vittima, fu presto scoperta con sicurezza certa. Non so come vanno queste cose, ma la vita di Michele fu segnata. E la sua cecità fu tale, che non si vendicò mai di me. Dava così poca considerazione alla gente, che forse non si ricordava di nessuno. Ermelinda si ricordava di lui.
Fu molto scossa in realtà, anche se dapprima lo nascose. Mascherina le aveva mostrato un lato dell’uomo che preferiva non conoscere. Fu pensando che un giorno potessi essere come Michele, che mi lasciò. Credo.
– Non ti penso più come prima.-
– Ho reagito male? Non sapevo che fare.-
– Potevi dargli un pugno.-
– Stavo per farlo.-
– Un escremento di cane!-
– Ti fa ridere o cosa?-
– Non so, un poco. Che schifo.-
– Sono pulito, sai, e non mi sono mai sporcato. Ma mi lasci, e spero non per la cacca.-
– No, non per questo. E non so darti nemmeno un motivo.-
– Tienilo pure per te.-
Lo tenne per sé, e non lo seppi mai. Mistero di donna. Non ne ebbi mai più una, ma dormii con molte da quella sera. Ce n’era a chi avrei tirato un escremento, ma non avevo più voglia di abbassarmi sotto gli alberi, di appostarmi, di rendermi ridicolo. Mi stupisco ogni giorno di aver osato farlo. E cosa che mi diverte e mi rattrista ancora.
– Lo sai che una volta ho tirato una cacca?- , è il mio grido di battaglia.
– A chi?-
– A Mascherina. Conosci Michele Nicodemi? Vende pentole sul canale 23.-
– Hai lanciato escrementi ad un uomo che si vede in tivù? Forte!-
Ridono tutte. E poi dormono con me.
Mascherina vende pentole in tivù, e spera certo un giorno di poterne lanciarne una colma di stallatico contro chi lo ha svergognato definitivamente. La fama che gli detti però potrebbe essere alla base della fortuna che ha ora. Qualcuno avrà detto:
– E lui. L’uomo- cacca.-
E lo avrà preso in simpatia. Ma non credo. Vorrei che fosse così. Potrei dire di essere stato un talent scout. E invece di un uomo pieno di talento ho scoperto un fesso come tanti, a cui ho dato ciò che meritava. A qualcuno può divertire, ad altri no. Altri potrebbero chiedermi se la mia quarta vita ha riservato anche del romanticismo. Sì, ed è stato ancora più umoristico.
Come quando avevo la bocca piena di frittata, le ho detto:
– Ti amo.-
E brani d’uova son franate sul tavolo vergognosamente.
Come quando mi ha baciato senza essersi sciacquata la bocca dal dentifricio, e io ho sputato, e lei:
– Ti fanno tanto schifo i miei baci?-
– Molto, quando sanno di fluoro e non di te.-
O al primo ed unico nostro anniversario, quando le regalai la collana sbagliata. Divenne isterica e pianse.
– Scusa, scusa, so che la puoi cambiare.-
– Non ne ho la minima intenzione.-
– Anche questa però non è male.-
Ed avevo aspettato che si rasserenasse, per poter riderle in faccia della figura penosa che mi aveva fatto il suo pianto. O come quando mi ha chiesto se volessi un bambino. Non era una domanda che facesse ridere, ed Ermelinda era seria. Ma stavo bevendo del latte, ebbi un sussulto e glielo rigettai in viso. Mi spiaceva, ma mi fece ridacchiare stupidamente, proprio per il contrasto tra la sua seria compostezza e la macchia che le avevo impresso.
– Ti ho fatto una bella mascherina di latte. A proposito, perché non ti sposi proprio Mascherina?-
Non lo pensai, non lo dissi. Ma a pensare ora ad una frase così sconveniente, rido ora fragorosamente.
Mascherina ha represso la sua vendetta, e l’ha riversata su Patrizio, insediando la sua Vittorina.
In realtà, non conosceva questo mio coinquilino. Aveva notato le grazie di Vittorina Postilli, che erano tante, e l’aveva importunata fino a conquistarla. Era una postina.
Arrivava fino a casa sua con le buste.
– Mi porta sempre bollette, Vittorina.-
– Come sa il mio nome?-
– Cè scritto sul cartellino che ha sul petto.-
– Me lo son messo io.-
– Per far sapere come si chiama?-
– Sì.-
– Allora perché mi fa una domanda così scema?-
Vittorina Postilli era idiota. Si era messa un cartellino col suo nome, perché le sembrava carino farlo, e si stupiva quando chi non la conosceva sapeva il suo nome.
– Sapendolo, chi sa quanti le manderanno lettere che poi si consegnerà da sola.-
– Non arrivo fino al mio indirizzo.-
– Che è?-
– Via Labrador, 45. Perché?-
– Potrei scriverle?-
– Non ci pensi nemmeno!-
Ma Vittorina ricevette ogni busta, le scartava con piacere, e leggeva ogni missiva.
Erano piene di frivolezze daltri tempi. Ma Vittorina era stupida e sola. E ci cascò.
Persino quando Mascherina arrivò ad inventare la Super Lettera Amorosa.
Eccola qui trascritta.
Roccacannuccia, 18 marzo 2005
Egregia stellina di mare Vittorina,
Le tue mani calde mi accarezzano tuo malgrado, e pare che il deserto del Sahara mi si posi sulla schiena quando ti vedo! Brucia, brucia, e tu non mi lanci un secchio dacqua? Bene, allora piangi commossa del mio amore, e fanne un secchio che mi raffreddi il bollore. T’amo, e amo le lettere che mi porti e perfino le bollette, anche quelle salate. Sai, una volta per aver sfiorato le gambe di una donnina che niente ha di tutto ciò che hai te, mi hanno imbrattato di che non ti voglio dire. Da allora, mi chiamano Mascherina. Leva tu la tua maschera misteriosa e avvolgimi di dolce miele zuccheroso! Porta solo le lettere che ti mando io, e con le altre appronta un falò, presso il cui fuoco ti mostrerò i miei fiammanti dardi di passione!
Vittorina dissigillò la lettera fremente. Quasi la strappò. Abituata a consegnarle, non ne aveva mai ricevute. Non è un modo moderno per conquistare una donna. Forse anche per questo, per un fascino fuori moda, Vittorina fu presa da questo sconosciuto, tanto che se ne innamorò ingenuamente. Lo volle conoscere, e lo conobbe. La sera di questo primo appuntamento, Patrizio Villetta era stato tradito. Ma non aveva sentore di niente. Tanto che gli appuntamenti proseguirono.
Quando scarico il materiale dal furgone, devo anche apprestarmi a montarlo. Ma sono aiutato dai colleghi, e la fatica è equamente divisa. Si monta un palcoscenico. Arrivata la star di turno, si spera che non crolli il pavimento. Ma non è mai successo. Non conoscevo quasi nessun artista, perché la radio non l’accendevo mai. Ero l’unico che la rifiutasse, e spesso chi mi sedeva al fianco si lamentava di questa mia stoica presa di posizione.
– Non voglio musica. Mi distrae dalla guida.-
– Fai tu, ma io mi annoio.-
– Pure tu mi annoi, Granchio. Se potessi, spegnerei anche te.-
– Mi spengo da solo.-
C’è tutto questo fermento, e noi siamo in disparte a scolare della birra. A me non importa di questa cantante che è arrivata ad esibirsi. È una donna che è invecchiata ripetendo come un juke- box le stesse note. Il suo pubblico l’aveva, però . Non scalpitavano, ma stavano attenti come se assistessero ad un’opera lirica. Non ne potevo più. Ero io che avevo montato le assi che la sorreggevano.
Conoscevo tutta l’architettura di questa baracca. Seppi agire sui giusti cardini. Non fu facile, ma, senza che nessuno se ne accorgesse, allentai quella intelaiatura che tante volte avevo approntato ora per questa, ora per quell’altra ugola d’oro che di turno si affacciava al pubblico. Non bastò. La struttura era molto solida. Così presi un estintore, e salii le scale che portavano al palco. Temevo che mi agguantassero e me le dessero di santa ragione. Il licenziamento, quello lo avevo già calcolato e forse mi andava bene così.
Mi trovai dietro Vanda Sassofon in un attimo. Era brutta e lagnosa. Ma anche famosissima e ben stimata. Quando fui là sopra, il pubblico mi dovette aver notato, perché ci fu un urlo improvviso di stupore. Forse pensavano ad una gag. Posizionai l’estintore dietro la nuca della befana, ed aprii la spoletta.
– Quando le rose sono in fior, amore mio le lucciole cantano e ballano archi damor!
Dio mio, che cosa…Ah! Aiuto!-
Le imbiancai tutta la schiena ed il capo. E quando si girò, mica mi fermai. Mi dispiacque, ma credo che un poco di schiuma ne abbia pure ingoiata, la babbiona. Non fui arrestato, perché non c’era chi mi fermasse. Il presentatore della serata era a metri di distanza, forse in mezzo alla folla.
C’era chi rise. Ma prevalse la solidarietà nei confronti di Vanda. Gli ammiratori più affiatati arrivarono a trovare la scala, salirono e si divisero in due piccoli plotoni. Uno si prese cura della Sassofon, l’altro si diresse verso me per darmi una lezione. Fui pronto a saltare sul resto della platea, e un mare umano mi accolse. Forse c’era chi mi voleva punire, ma fui fortunato nello schivare mani nemiche. Quelle che mi sorreggevano, mi portarono in salvo. Non mi sentivo né un eroe, né uno stupido. Avevo colpito Vanda Sassofon per porre fine alla sua tradizione musicale.
Non era servito. Ma almeno non si esibì più a Roccacannuccia, la babbiona.
Male mi colse a verniciare di bianco quella vecchia civetta della Sassofon. Mi inseguirono per arrestarmi, e ce la fecero. In galera, chiesi birra e gin, e mi guardarono male. Tonoko Pokopoko, il mio compagno di cella giapponese, mi disse che avevo chiesto la luna.
– Si mangia e si beve, Flanella, ma niente billa e gin!-
– Grazie, nippo. Chiedevo per chiedere.-
– Meglio chiedere per avere.-
– Seguace di Confucio o del Marchese De Sade? Mi annoi da morire.-
– Chi è questo Malchese?-
– Lascia perdere.-
Il giapponese mi dormì sopra, in un letto a castello che mi distrusse la schiena. Sognai Vanda che sogghignava e continuava a cantare:
– Quando le rose sono in fior, amore mio le lucciole cantano e ballano archi damor!-
E il canto continuava e non finiva più. E nel sonno del mio sogno Vanda si tramutava in Tonoko Pokopoko, e Tonoko si trasformava in Patrizio Villetta, dalle corna sempre più lunghe, che diramandosi diventavano due gambe. Le gambe di Ermelinda, sottili, sinuose, lunghe.
Lunghe tanto che non finivano mai. Poi finirono, e c’era un ventre, un petto, un viso.
Ma erano di Mascherina. Un orrore. Mi svegliai dietro le sbarre. Volevo respirare aria di libertà e non ce n’era. Libertà. Non conoscevo questa parola prima di perdere la mia. Siamo tutti liberi di perderla, ma, persa, nessuno è libero di riprendersela. Ci vuole un capo che te la riconsegni.
Il mio era Ruggero Scafozzo. Guardia integerrima e partenopea, mi rivolse un:
– Sei libero, Cherubissi.-
E lo volevo baciare, ma mi arretrai. Mi avrebbe fatto rinchiudere nuovamente. E basta galera.
Mi dispiace lasciare Tonoko Pokopoko. Ma sapevo che sarebbe rimasto poco poco.
Turista maniaco delle foto, vero stereotipo del suo paese, ne aveva fatta una alla moglie del mio farmacista. E lui, Manrico Occone, aveva frainteso questo scatto. Pensava che il giapponese stesse vantandosi di avergli sottratto la sua Carmela, mentre era solo un povero osservatore della realtà, venuto dall’Oriente. Così gli infiai della marijuana nella tasca e lo fregai.
Raimondo Cherubissi libero fu per alcuni mesi un uomo nuovo. Ripresi il lavoro consueto, e filai dritto. Vanda Sassofon continuava a cantare alla radio, e riuscii a cambiare stazione, reprimendo l’istinto che avevo di frantumarla. E io portavo, montavo e smontavo palcoscenici che sorreggevano piccoli e grandi idoli della popolazione. Cantavano le loro frasi piene di sentimento ed enfasi, e facevano terminare blocchi di biglietti alti così. Io apprezzavo solo Bilbo Binko. E un giorno venne. Fui tanto idiota che, potendolo ascoltare gratuitamente, appoggiato alla struttura che avevo contribuito a comporre, feci la fila e mi comprai il biglietto. Bulbo Binko suonava il violino rock. Era una sua invenzione. Sembrava un violino, ma emetteva il suono di una psichedelica chitarra. Che sballo, giovani. Che vita, vecchi. Bulbo Binko è micidiale. Arriva con entrata ad effetto, con uno zaino contenente due razzi che, accesi, lo fecero roteare nello spazio, facendo roboare la folla festante. Era un mezzo fantascientifico costruito con poco ingegno e molta fretta. Un razzo cedette, avendo perso spinta propulsiva. Il grasso Bulbo cadde sulle assi di legno che gli avevo amorevolmente preparato come pavimento su cui esibirsi. Ebbi un sussulto al cuore. Sapevo che non poteva certo morire, ma fu una caduta molto improvvisa, e colse tutti di sorpresa.
– Maledetto mondo che mi manda qui a far figura che son scemo quando invece son così gagliardo!- , disse il mio beniamino tutto dun fiato, massaggiandosi il ginocchio dolorante.
Non venne nessuno a soccorrerlo. Bulbo non disperò. Si rialzò, si strofinò con le mani i pantaloni impolverati, e si avvicinò al microfono. E fu duro e crudo rocknroll.
– La mia mamma disperata mi cerca sconsolata e io rock! E roll! Rock e roll, rock and roll!Tutti quanti, roccheggianti! In questo rock, che è qua,è là! E mangio pomodoro su spaghetti oh yeah che sono una bontà!-
Magnifico. Fu l’unico concerto cui assistei pagando. Non c’erano ancora all’epoca gruppi gagliardi come i Sonasega Megadraiv,i Charles Sbronzon o i Bubulcus. Ma valse il prezzo.
Passarono gli anni, ma invece di andare avanti nella vita, incontravo sempre più gli amici del passato. E cosa facevano? Mi ricordavano com’ero ieri. Raimondo un tempo ha avuto anche il nome di Flanella. Paco Geronzo non ha dimenticato niente di quei giorni. Lo rincontrai svenuto dopo una sbornia sopra un marciapiede. Lo riconobbi perché era caduto sulla schiena. Si era appisolato. Gli passai un piede sopra la pancia, attento a non fargli del male, ma deciso a svegliarlo.
– Paco Geronzo, età presumibile di quarantatre anni, ubriaco fradicio.-
– Flanella, età presumibile di trentaquattro anni, sobrio ancora per poco.-
– Mi spiace, non bevo più da tempo. E ora mi chiamo Roccia.-
– Mi prendi in giro? Ti approfitti della mia sbronza, ma non ci casco. Sei Flanella.-
Questo nome mi fu dato quando ebbi necessità di una coperta. Ero un barbone, e non mi ero accorto nemmeno come lo diventai. Forse seguivo più la carriera artistica di Bulbo Binko degli annunci di lavoro. Forse. Non so spiegarlo. Ma Raimondo è stato anche Flanella. Era di flanella la coperta che mi riparò dal freddo, e che mi fu donata dal miliardario Oblomov Oppenhof. Camminando la sua opulenta signora inciampò, e le si strappò dal collo una collana ricca di diamanti. Il gioiello mi rotolò sul ventre, e nemmeno me ne accorsi. Ma Oblomov, noto guru dell’alta finanza, lo notò.
Non pensai neanche che nella mia infima condizione potessi nasconderlo e tenerlo per rivenderlo.
Mi considerò un gentiluomo suo pari.
– Egregio parassita della società, mi restituirebbe Orgoglio d’Occidente?-
– Se sapessi cos’è, subito, senza indugi. Ma di orgoglio me ne intendo poco, negli ultimi anni.-
– Illustre zotico, parlo di quella parure di brillanti che mia moglie ha fatto franare sulla vostra tremolante epa.-
– Non capisco cosa sia questa epa, ma effettivamente sulla pancia vedo un coso prezioso.-
– Se me lo favorisce, le donerò metà del suo valore in contanti.-
Intanto la moglie, appurando di non essersi fatta niente di male, si era recata in un negozio, ed aveva comprato una coperta nuova nuova che mi regalò generosa. Una coperta di flanella.
– Che Dio le renda merito.- , dissi al marito.
– E che la salvi, buonuomo. Tenga, questi fogli le saranno d’aiuto.-
E sventagliò una serie di banconote che mi restituì la gioia di essere sotto questo cielo.
– Cosa ne farà, Flanella?-
– Mi chiamo Raimondo.-
– Il nome di un cane non le rende merito.-
– Così mi fu dato.-
– Raimondo, spenda con acutezza la cifra e si riprenda la sua dignità di uomo.-
– Agli ordini.-
E tornai a rivivere.
Gli anni che seguirono furono molto intensi. Ero quasi un uomo ricco. Quasi, perché il ritmo con cui le banconote passavano di mano era tale, che previdi un’imminente bancarotta. Fui ben presto al verde. Mi comprai una barca, e vissi sul fiume. La mia casa era attaccata alla terra ferma con una fune. Chiunque poteva sradicarmi, e mandarmi alla deriva. Questa eventualità mi rendeva sempre guardingo, e la notte dormivo ad occhi aperti. Finché mi arresi ad ogni destino, ed accettai il pericolo come cosa umana. Una sera, Flaminio Piedediporco si risolse a piombare all’arrembaggio sulla mia dimora galleggiante. Lavorava da solo, per non dividere il bottino con nessuno. E non temeva niente. Ma io ero un uomo arrabbiato. I miei risparmi erano la mia salvezza. Così, avvertendo una presenza indesiderata, finsi di riposare. E quando si avvicinò, mi alzai e proruppi verso il famigerato Flaminio, gonfiando il petto come un gorilla. Lo sorpresi tanto che perse la sua spavalda sicurezza, e tremò di paura. Non lo ferii, ma, facendolo indietreggiare, lo costrinsi a gettarsi in acqua. Non sapeva nuotare, ma non lo aiutai. Sarebbe stato di lui quello che sarebbe stato. Non lo avrei rimpianto se fosse sprofondato sotto metri di fiume. Ma Zimilda la zingara ne ebbe pietà. Si gettò e rischiò la vita per quest’uomo che non conosceva. Fu ricompensata con una sberla.
– Accipicchia, che riconoscenza. Chi t’ha creato, una rospa senza cuore?-
– Una donna che salva un uomo non esisterà mai.-
– E stato, è stato. Non fosse mai successo, avrei ancora la guancia sana.-
– Esagerata balena, ti impicci di che non ti riguarda!-
– Sporco pirata, solo annegando ti saresti lavato!-
– Ladra!-
– Ladro!-
Si trovarono anime gemelle. Tante notti li videro protagonisti di funamboliche razzie a danno dei maggiorenti di Roccacannuccia. Raggranellarono molto, ma il mio tesoro non riuscirono ad averlo.Lo feci sublimare io. Si volatilizzò in spese che ad elencarle paiono la lista di nozze di un marajà.
Ecco quel che ricordo. Comprai:
1. La barca- casa;
2. Tre enormi televisori, che non seppi dove mettere;
3. Cinque gatti di razza, che contavo di rivendere;
4. Venti scatole di sigari cubani;
5. Sette volumi rari, tra cui la prima edizione dei Promessi Sposi;
6. Diciotto camicie di seta;
7. Otto automobili, una per ogni giorno della settimana più una di riserva;
8. Un robot di ultima generazione.
Fu quest’ultimo acquisto che mi dette molti problemi.
Il robot lo comprai perché mi facesse da guardia del corpo. Lo acquistai dall’ingegner Anselmo Ingranaggi, che mi assicurò la sua piena funzionalità. Comodo, lo era. Rispondeva al linguaggio umano come fosse suo.
– Timoteo CX3200, rispondi agli ordini?-
– Ai suoi soltanto, signor Cherubissi!-
– Vigili sulla mia barca, che è la mia sola casa.-
– Lo farò come fosse la mia.-
Andò tutto bene per tre giorni. Poi si stufò di adocchiare ombre nella notte. Si insediò sotto coperta, e pretese di fare il maggiordomo. Fece salire del caffé sul fornello, e neanche gliel’avevo chiesto.
– Timoteo CX3200, fuori!-
– Padrone, non posso. Voglio scoprire dove arriva la mia vena culinaria.-
E faceva la spola tra il mercato e la barca, acquistando viveri e preparando pranzi che non riuscivo a terminare. Era un cuoco spaventoso. La pasta, la cuoceva fino a farne poltiglia. L’aragosta, me la consegnava ancora viva in tavola. La carne muggiva e belava, come se non avesse mai affrontato il macello. Dovevo masticare quelle pappe senza criticare. Non sapevo che reazione avrebbe avuto sui suoi circuiti di robot sensibile. Ma una volta non resistei. Mi aveva riscaldato il gelato, e pretendeva che lo ingurgitassi bollente.
– Timoteo CX3200, basta! Voglio mangiare come uomo comanda!-
– Ho provveduto io a tutto. Il frigorifero ne ha per dieci giorni.-
– Ma la mia pazienza non ha più un minuto. Non sei un cuoco, non sei una guardia, non sei utile!-
A questa mia sfuriata, gli occhi blu si accesero di rosso. Sopracciglia che non gli avevo mai notato si incurvarono in unespressione di rabbia. Volle strangolarmi con le sue mani di ferro, due tenagliep ossenti. Mi ritrassi, e gli assestai un calcio sull’addome dalluminio. Cadde, e si spense.
Non lo accesi mai più. Rimandai la carcassa all’ingegner Ingranaggi con una lettera minatoria, in cui spiegai i danni che il suo prodotto mi aveva arrecato. Mi rimborsò, e si scusò. Si era offerto di ripararlo e di aggiungervi delle modifiche, ma negai di volerne acquistare la nuova versione.
Avevo ancora del denaro, nonostante la mia dissolutezza. Così mi comprai una casa vera, lasciando la barca attraccata ed abbandonata. La mia nuova villa era spaziosa e confortevole, e mi ricompensò di tutti gli anni in cui la mia schiena ha dovuto passare il martirio della vita sulla strada. Questo letto d’ottone aveva un materasso comodo che mi faceva riposare come non mai. Il giorno, però, qualcosa dovevo fare. Con le tasche zeppe di banconote, bighellonavo senza meta e senza pensieri.
Finché incontrai Carmelinda. Tesseva maglie di ogni foggia e dimensione, ed aveva gomitoli di lana di ogni colore. La sua specialità erano i pettegolezzi, che riusciva a trascrivere minuziosamente. Li ascoltava giorno dopo giorno. Annotava nomi e misfatti, e li tramandava su maglia. Capitava spesso che il cliente era la persona diffamata, che comprava l’indumento per impedire la propagazione di altre chiacchiere maligne. Ma quando chi acquistava era un altro,che inferno! Si cercava di ricomprare quegli stracci di lana, ma erano già indosso a sconosciuti pieni di voglia di gettar zizzania. Carmelinda era molto odiata da questi mancati clienti, e rischiava spesso il linciaggio. Ma era anche graziosa, e quindi spesso veniva soltanto circuita da galanti pretendenti.
– La mia maglia, Carmelinda.-
– Non posso, è passata in altre mani.-
Ero venuto a conoscenza che Carmelinda aveva trascritto il mio incontro col miliardario Oppenhof, e che aveva scritto anche la somma che mi aveva donato il santuomo. Dovevo punirla.
Poiché la maglia effettivamente non l’aveva (ispezionai tutta la sua merce con scrupolo), comprai tutta la lana che si trovava nella regione. E la vendetti ad un amico lontano. In questo modo la sua attività finì, e Carmelinda restò sul lastrico. Ma anch’io. Tutta quella lana mi era costata tutto il patrimonio. Poveri come pochi al mondo, dovemmo chiedere l’elemosina. Ma le nostre strade si divisero, perché ognuno a suo modo aveva mandato in rovina l’altro col proprio comportamento sconsiderato.
Mi ritrovai al verde nuovamente. E passai tutto il mio tempo a camminare, senza sosta. Finché caddi in un tombino. Caddi sul morbido però, perché era stesa una coperta grossa e lanuginosa. Chi dormiva là sotto? Il tanfo era orribile. Ciò che produciamo naturalmente, orina ed escrementi, fluiva là sotto notte e giorno. Il miasma era ciò che rendeva quel luogo inaccessibile e scarsamente popolato da ratti grossi come talpe. Quelli c’erano, ne contai almeno una ventina. Uno mi sfiorò il piede, e ne ebbi paura. Ma non mi morse. Il fiume sotterraneo era vaporoso e scorreva continuamente verso il mare. Mi chiesi se il fondale marino fosse fatto anche di questo, ma non avevo elementi per rispondere. Proseguii il cammino. Qualcuno aveva chiuso il tombino, e dovevo sperare che ne avrei incontrato un altro aperto. Se così non fosse stato? Non volli rispondermi. Mentre ci pensavo, si profilò alla mia vista una barchetta. C’era sopra un uomo barbuto e dallo sguardo determinato.
– Salve- , disse dopo avermi notato, – Anche lei in perlustrazione di questo luogo così affascinante?-
– Che Dio mi salvi, no! Sono qui per uno stupido ruzzolone.-
– Spero non si sia fatto male.-
– Ho trovato un giaciglio che mi ha parato il colpo.-
– La mia coperta. Pensi, me l’ha donata il miliardario Oppenhof.-
– Anche a lei?-
– Sì, un gentile omaggio per aver lavorato per lui.-
– Flanella?-
– No, filigrana doro.-
– Sogni doro!-
– Me ne ha procurati! Poi l’ho venduta, per realizzare altri sogni.-
– Questa gita?-
– Non me lo chieda, salga su!-
E salii sulla barca, che incredibilmente aveva una cappotta che ci riparò. Un generatore di aria ventilata ci ridette respiro. Inutile chiedere se fosse invenzione sua. Aveva la faccia dell’inventore.
– Mi chiamo Rosvito Attrito, e seguo questa melma per vedere dove sbuca.-
– In mare, mi sembra ovvio.-
– Appunto. Voglio vedere dove sbuca. Voglio vedere il mare profondo, seguire le sue correnti,inseguire gli squali, e se ha da suggerire, lo faccia. È un grande mondo sommerso.-
– Capisco, ma io vorrei salire.-
– Desidera la terra ferma? Non ne è stufo?-
– Sono stufo della fogna!-
– Okay, recepito. Saliamo.-
E presto la mia avventura finì. Salutai Rosvito Attrito. La sua era appena cominciata.
Dopo aver visitato la fogna, volli riassaporare Roccacannuccia da sopra. Era un paese allegro e pieno di vita,vicino a Buti. Mi prese un’improvviso amore per la sua toponomastica. Il borgo, c’era, in effetti.
Era il pozzo che mi incuriosiva. Aveva un fondamento l’appellativo di Roccacannuccia?
Chiesi ad un concittadino.
– Scusi, sa dov’è il pozzo?-
– Ce l’avevo in giardino, un pozzo. Ora ho divorziato, ce l’ha mia moglie.-
– Non il suo, intendo il nostro pozzo, quello di noi borgopozzesi.-
– Ah, quello. Chieda al vecchio Onofrio Zolla.-
Questi era il più vecchio di tutta Roccacannuccia. Aveva centoventisei anni. Ne aveva viste di cose.
Ma non aveva mai sentito una domanda così appassionata. Si commosse a parlarne.
– Avevo sei anni quando il pozzo fu tolto. Capivo abbastanza per ascoltare mio padre che mi narrò la sua origine.- E mi raccontò che un tale Saverio Orione lo distrusse in preda alla furia.
Amava Petra Mollica come un Otello. E come leroe tragico, ne fu oltremodo geloso.
Petra usava il pozzo per incontrare Duilio Drudo, il lattaio. Un giorno, Saverio comprò tutto il latte che Duilio poté fornirgli.
– Non godrai di questi soldi, lattaio.- , disse, ma non fu ascoltato.
È giunta lora dell’incontro amoroso, versò tutte le bottiglie nel pozzo. Le aveva aperte tutte, e le aveva schierate in fila presso di sé, per guadagnare tempo. Petra e Duilio si stavano baciando, quando furono colti sul volto dal liquido nutriente. E Saverio fu così lesto, che compì ciò che aveva in mente, nonostante fosse un’impresa folle. Non potendo più risalire, dato che la fune che li collegava al giardino gli era stata sottratta, dovettero rassegnarsi ad accettare gli altri bianchi litri.
– Beviamone, Petra.-
– Non ho sete, Duilio.-
– Il latte è un cibo, Petra.-
– Non ho fame, Duilio.-
– Ci salveremo, forse.-
– Non ho speranza, Duilio.-
Stavano per affogare quando Saverio scivolò sul prato, anch’esso impregnato del latte che aveva versato, e piombando su di loro alzò un’onda che prosciugò il pozzo. I tre eran vivi, ma in trappola.
– Petra, amore, perché ami Duilio?-
– Non so. Tu perché ti chiami Saverio?-
– Babbo e mamma mi chiamarono così.-
– Io e Duilio ci chiamiamo innamorati perché lo siamo. Vuoi toglierci questo sentimento?-
– Non potrei anche volendo. Ma non posso eliminare il mio per te.-
– E allora tienilo, ma per te solo.-
– Non so che farci.-
– Allora vedi che è inutile, e non temere se svanisce.-
E di colpo il sentimento svanì dal cuore di Saverio. Si trovava di fronte due estranei, in uno spazio troppo angusto. Ed esplose. Materialmente. Saverio non era niente senza Petra. Lo diceva sempre.
E difatti, non amandola più, la sua consistenza di umana carne sparì con un botto e un crepitìo
– È morto, Duilio.-
– Credo di sì, ma noi siamo vivi Petra. Andiamo via.-
Il pozzo era esploso con Saverio, e i due erano liberi. Così riferì Onofrio Zolla, ma è storia piuttosto fantasiosa. E io, come tutti a Roccacannuccia, non ci credetti, ma l’accettai come pura verità.
Fu cosa d’altri tempi, ma avvenne. Mi ritrovai come un cowboy di fronte al suo avversario in un duello da frontiera americana. Vederlo vecchio mi rattristì, e più ancora pensare che anche lui doveva trovarmi ingrigito. Ermelinda stavolta non c’era. E non c’entrava nella disputa.
Eravamo due persone in una città che non poteva contenere entrambi. Non avevamo pistole ma zucche cremose. Onofrio Zolla, colui che unico ricordava tutta la storia del pozzo di Roccacannuccia,ce le aveva procurate dal suo campo sterminato. Le aveva colte facendosi aiutare da tutti.
Non gli chiesi se ci fosse anche Ermelinda, o se si fosse trasferita altrove. Non volevo vederla nei suoi ottanta anni. Tanti ne avevamo io e Mascherina. I lanci ebbero inizio. Le cocurbitacee ci coglievano in pieno volto, e ci riempivano la bocca di sugo di zucca. Queste maschere ci facevano apparire più giovani, e ci tornò la foga di un tempo. Così la lotta si inasprì.
Fino a concludersi. Credetti di aver vinto. Mi avvicinai, e Mascherina era a terra.
– Sono proprio sazio. Ne hai ancora. Io le ho finite.-
– Tu almeno ne hai mangiato. La tua mira ha fallito tanto che mi hai imbrattato i pantaloni.-
– Ti ho colto almeno trenta volte su quaranta tiri!-
– Non più di cinque su quindici, Mascherina. Non ti ho dato molta tregua.-
Non si capì mai chi aveva ragione. C’erano tanti spettatori, ma nessun arbitro.
Il giornalista Venanzio Barbati ci intervistò, ma lo cacciammo dalla piazza.
– Non vede che nessuno ha vinto?-
– A quando la rivincita?-
– Non ci sarà.-
– Io ci sarò, e il mio giornale ne scriverà.-
– Allora scriverai panzane, perché le zucche son finite.-
Era vero. L’intero raccolto di Onofrio era andato perduto in modo così pittoresco.
– Allora inventatevi un seguito, e io lo spaccerò per vero. Vi prego! È il fatto del momento.-
– Poiché è quello del momento, non sarà quello di domani. Si trovi altri eventi!-
– Mica facile.-
– Venga con noi al Festival delle Belle Parole.-
– Ci sarò. Dovè?-
– Presso il teatro di Prato Secco.-
Il teatro di Prato Secco è sempre gremito, tanto che a Prato Secco non si lavora.
Lo spettacolo è l’impegno di tutti, un dovere ed un piacere irrinunciabile. Cambiano gli attori, e pure i brani improvvisati. Sono vere frasi, pronunciate all’interlocutore, ma rivolte a tutti.
– Quanto son belli i gerani che hai messo in terrazza, Oliviero!-
– Che cara figlia hai cresciuto, Filomena!-
– Come canta bene Vanda Sassofon!-
– Che cagnolino grazioso, Cristina!-
– Buona la torta di nonna Rinalda, chi ne vuole altre fette?-
– Ho sessanta dipinti favolosi di quel talento di Curzio, ammirateli!-
Tanto calore era ammirevole, ma finto. Gli abitanti di Prato Secco odiavano in realtà i gerani di Oliviero, non sopportavano che fossero così sgargianti. Marisa, la figlia di Filomena, nessuno la poteva sopportare. Si metteva spille uncinate nei capelli, e se le toglieva spesso per tormentare le amiche, così ne aveva sempre meno. Vanda mi spinse ad assalirla durante un concerto, e non ho nulla da aggiungere per discolparmi. Ho pure pagato la pena in gattabuia. Il cagnolino di Cristina era insopportabile per il suo abbaiare da Dobermann. E i quadri di Curzio erano tali, che li capiva solo lui. E tanto pessimi i soggetti, che spaventavano chiunque. Un corvo sopra un pomodoro, era l’avviso che tutto ha una fine. Un grillo sopra un giglio, era simbolo di una nave naufragata. Un gallo sotto un cubo, era un gallo sotto un cubo, non significava niente. Ce n’era anche uno appeso in carcere, nella mia cella. Quando venivano venduti, era il cliente che voleva essere pagato per tenerli appesi alla parete. – Ti faccio pubblicità, Curzio.- , spiegavano tutti. E Curzio pagava i suoi quadri, regalandoli a chi li avrebbe gettati in una discarica di lì a poco. Quanto alla torta di nonna Rinalda, non c’era niente da dire. Quella sì, era veramente buona.
Ci fu una volta che telefonai a tutti i numeri telefonici contemporaneamente. Avevo passato degli anni a testare una tecnologia che fosse all’avanguardia. Ma riuscii a completare il Tuttofono.
Questo apparecchio poteva farmi comunicare con tutto il globo. Selezionai solo i numeri della mia nazione, pensando che tante voci mi avrebbero rovinato l’udito. E contando che anche queste lo avrebbero fatto in pochi secondi, brevettai una cuffia ad alta protezione contro l’eccesso di rumore.
Funzionò. Tastando un pulsante potevo dire a milioni di persone cosa volevo. Era molto emozionante. Potevo raccontare di tutti gli individui incontrati finora. Potevo esporre critiche su ogni argomento. Potevo avanzare richieste di ogni sorta. Quanti commercianti potevano offrirmi le loro merci a prezzi competitivi! Avrebbero fatto a gara a ribassarli. E avrei comprato un’auto al prezzo di un televisore. Ma non parlai, intimorito. Pensai:
– Se ci sono tutti, cè anche il Presidente della Repubblica.-
Ero arrivato a tanto? Pareva di sì. Sarebbe mancato solo chi fosse stato in auto, o in luoghi che il satellite che avevo fatto sparare non avrebbe captato. Lo aveva spedito il mio amico Maggiolino,esperto di ingegneria aerospaziale. Era grande quasi come il pianeta. Per spedirlo, consumammo talmente carburante, che per dieci anni noi due avremmo dovuto risarcire lo stato di tanto greggio.
E cosa dissi? Praticamente niente.
– Popolo italico, ciao. Qui Raimondo Cherubissi. Vi saluto.-
Maggiolino, che avrebbe potuto esporre una relazione scientifica di alto livello, era dietro di me, sgomento.
– Come hai potuto?-
E scoprii che cera una sola possibilità di usare quel microfono. La ragione tecnica non la saprei individuare, ma la sostanza è che avevo salutato tutti, e non avevo detto niente a nessuno.
Siamo arrivati al dunque. Dunque, ho vissuto anni intensi. Talmente tanti che proseguendo non avrei fatto che ripetere gli stessi gesti, e le stesse azioni. Ed ecco che Maggiolino tornò ad essermi utile. Usò un frigorifero capiente, e lo adattò ad uso criogenico. Ovvero, mi congelò.
L’esperienza fu…raggelante. Tanto che sono ancora qui. Non potendo comunicare, non posso dire a nessuno di aprire lo sportello, e di riportarmi a temperatura ambiente. Vedo fuori da questo vetro molte facce conosciute. Patrizio e Vittorina si sono riconciliati. Ermelinda canta duetti conl a Sassofon. Bulbo Binko ha comprato Timoteo CX3200, e lo usa come aspirapolvere. Tonoko Pokopoko è un agente segreto ai servizi di Oppenhof. Zimilda e Carmelinda sono colleghe,ed entrambe talvolta assaltano le barche, talvolta cuciono maglie. Flaminio Piedediporco ha abbandonato Zimilda, e ha sottratto Marisa, figlia di Filomena. Per conquistarla ha dovuto partecipare al Festival delle Belle Parole. Ha detto che l’amava. Era vero, ma ascoltando tante bugie ha perso la familiarità con la verità. Ruggero Scamozzo aiuta il giornalista Venanzio a scovare notizie da prima pagina, in cambio di utili segnalazioni. Curzio dipinge le torte di nonna Rinalda, ed insieme vendono quadri e crostate. Onofrio racconta sempre la storia del pozzo di Roccacannuccia, ma non lo ascolta più nessuno. Manrico il farmacista pensa ancora che Tomolo abbia insidiato Manuela. Tanti volti davanti a me, tutti amici. Mascherina vuole la rivincita.
E il prossimo anno ci sarà unaltra sfida a Prato Secco. Se Onofrio non avrà più zucche, ci tireremo altri ortaggi, in nome dei vecchi tempi. Maggiolino è riuscito ad aprire lo sportello.
Esco. Sono un uomo nuovo.
– Sono un uomo nuovo.- , sto dicendo. Lo dico al muro di una casa che non è la mia. Il mio amico Rosario Fenna mi ha ospitato per qualche settimana. Patrizio Villetta infatti, per la sua cocente delusione amorosa, ha fatto saltare in aria il suo appartamento. Paolo Giglio del piano sotto stava facendo il bagno quando il tetto sopra gli si è sfaldato nella vasca. Ampi pezzi lo hanno ferito, ma se la caverà. Zorro Panteri, un allevatore di struzzi, dal botto si è spaventato assai, è uscito fuori ed è rimasto sul pianerottolo, senza incontrare nessuno che gli spiegasse cosa fosse successo.
Tutti nel palazzo sono usciti, ma hanno preso lascensore a turno e sono usciti di fronte al palazzo, giusto in tempo per vederlo crollare tutto. Zorro è sotto cumuli di macerie, ma è vivo.
I vigili del fuoco sono arrivati e lo stanno traendo in salvo. Io sono scosso, ma ho trovato ospitalità da Rosario, e mi sto tranquillizzando. Ho vissuto assieme a questa gente per anni, ed ora siamo tutti sfollati. Ci sarà chi andrà in un posto, chi in un altro, chi non saprà dove e dovrà penare per ricollocarsi. Ma a Roccacannuccia siamo gente in gamba, troveremo tutti una soluzione.
Chi non la troverà certo è Pacaco, una scimmietta che Patrizio aveva adottato facendosela importare dallestero illegalmente. Ora corre tra noi, ma nessuno ha l’aria di volere prendersene cura.
– Rosario, che ore sono?-
– E tardi, quasi mezzanotte.-
– Io allora vado.-
Non mi chiese dove, sapeva che nemmeno io sapevo dove andare. Mi cercai una nuova casa ed incontrai Zorro. Era bendato, e dimesso dall’ospedale da pochi giorni.
– Dove vai Flanella?- , mi chiese. Anche lui mi ricorda con questo vecchio nome.
– Seguo quella scimmietta laggiù, Zorro, non chiedermi perché.-
– Non mi interessa nemmeno, ma non avendo altro da fare la seguo anch’io.-
Pacaco la scimmia ci avrebbe indicato la via. Con la sua irrazionalità animale avrebbe dato un ordine alla nostra umana stupidità. Seguimmo il suo zig zag, e immaginammo di poterla scortare presso un posto sicuro, ma era Pacaco che guidava noi. Destinazione, una vecchia fabbrica.
Cerano solo vetri, e il rischio di farsi male. Nient’altro. Vetri.
– Zorro, non ho mai avuto una linea guida nella mia vita, ma adesso sto proprio esagerando.-
– Ti do un consiglio: lasciamo che la scimmia si sistemi qui, ma troviamoci un rifugio da uomini.-
– Non domani?-
– Disturbiamo qualcuno anche se è notte fonda.-
– Anch’io soffro senza una casa.-
Citofonammo ad uno sconosciuto. Era il sindaco Aurelio Badaloni, tronfio ed assonnato. Ci aprì con grande spirito di misericordia. E ci aiutò. Ancora una volta, vissi nello stesso palazzo con Zorro. E passati che furono altri anni, ancora non potrei dire di conoscerlo davvero.
Come nessuno di tutti questi esseri con cui ho avuto ha che fare, fino ad oggi.
C’è un qualcosa di cupo che mi prende tanto, davvero tanto. Complimenti!
È tra i miei racconti più complessi ma in realtà è nato con una prima parte scritta molto di getto
Si si mi sono accorta negli ultimi tempi che eri su Ali ti ho letto!
Devo scrivere 10 commenti per scrivere 2 post…
Dopo aver scritto delle poesie e averle poi messe insieme
Ora metto questi due racconti già proposti con successo su Alidicarta…
dove son stati letti da più di 100 persone
Li ripropongo per farli arrivare a un altro pubblico di lettori
Ora l’ultimo racconto? Ci sta.
Avete molto di mio da leggere.
Ed eccomi ancora a scrivere commenti per pubblicare 1
Non si può fare altro che andare avanti
E scrivere ancora come se si scrive sempre
Ma scriviamo finché il sonno ci prende
Ecco che metto un commento per pubblicare un altro testo 1
E quindi proseguo per appunto fare questo
E non esiste altro che proseguire
Per arrivare alla fine a pubblicare e
Pubblicando si spera qualcuno legga, contento.
Capisco benissimo per quale motivo ci sono tutti questi commenti, siamo messi tutti un po’ maluccio, certo che se si avesse la possibilità di pubblicare più facilmente senza l’obbligo di commenti sarebbe più comodo per tutti, sarebbe più attivo il sito stesso!
Laura,
In parte ti do ragione ma forse il creatore del sito lo ha fatto per farci socializzare e per leggere i testi degli altri. Io prima qualcosa leggevo ora no.
Molto bello letto con piacere, ciaooo e alla prossima.
Vado a commentare come si deve con questo post
Per una altra poesia che sto per mettere
Che non è dedicata a nessuno è solo per tutte le donne
Ma specie per le giovani forse,di non darla a tutti come se uno chiede Carla e quella risponde a chi le parla…
Quindi ecco che si arriva al di que con questa ultima per oggi
Ecco altri commenti per altri post
Quindi che faccio li scrivo e vado poi a
Pubblicare nuove poesie bla bla bla
Sperando che servano come devono servire
Un ultimo commento ed ecco che la poesia è pronta
Ed ecco che sono qui a fare altri commenti
Per pubblicare altre poesie,ma è strano
Perché di solito mica le scrivo però da quando lo faccio
Mi pare che non vengano tanto male devo dire
Commento per un post 1 per scrivere ancora
Commento 2 per arrivare a 5 perché una poesia ora è pronta
Commento 3 per fare ciò che si fa e sto per farcela
Trallallallla llakakjajjj ff fefecefe
Con questi commenti guadagno un post. E con un post posso scrivere ancora.
Quindi ne scrivo ancora 4 per poter aggiungere un racconto nuovo…
Scritto proprio in questo momento come viene viene
Tanto per divertire i lettori che attendono pazientemente…
Che ottenga più punti che mai, perché me al primo posto sarebbe la normalità…
Sereno pomeriggio e alla prossima.
Testo un po’ lungo ma molto interessante, ironico abbastanza gradevole.
Grazie,son contento che i miei testi piacciano a qualcuno. Così almeno il tempo che ho perso ha fatto divertire qualcuno.
Spero che anche la mia amata legga ancora ogni tanto, ma ci si vede troppo poco.
Spero le cose cambino.
Con questo racconto parte una serie spero di qualità. Si tratta di racconti che erano nascosti in archivio perché pensavo di pubblicarli in cartaceo.
Ma non mi interessa più farlo.
Spero vi piaceranno, e siccome la ragazza che adoro è una ex scrittrice che se ne è andata via donandomi tutti i punti,spero che torni e leggendo qualcosa che gli piace, si senta come se non se ne sia mai andata.
Scriveva racconti divertenti e originali, alcuni banali ma tanti carini,e tutti piacevoli; però deve aver litigato con qualcuno,o la annoiava vedere che non la si commentava abbastanza.
L’attesa di vedere se posso frequentarla o ci perderemo è snervante e così spero di distrarmi un po’ editando novità. Come pubblico siete stati generosi con me,mentre lei andava sostenuta e io nel mio piccolo l’ho incoraggiata. Conoscerla dal vero è stato bellissimo.