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Capitolo 3

“Perché con facciamo scambio? Ti pago la differenza; lo capisco bene che la tua parte rende di più della mia.”

Giacomo lo guardava, ma i suoi occhi lasciavano trasparire un completo disinteresse.

Andrea riattaccò: “Ho valutato che la differenza potrebbe essere 500.000 Lire; che ne dici? Magari facciamo a rate, man mano che vendo i raccolti.”

Lo diceva quasi col magone. Erano tempi duri per tutti, finita la guerra ed iniziato il lento cammino della ricostruzione. Dove li avrebbe trovati quei soldi non lo sapeva, ma voleva provarci.

“E che me ne faccio di 500.000 Lire?”

Giacomo l’avrebbe venduto volentieri il campo, ma suo fratello non c’aveva i soldi, neanche a pagarlo a rate; lo sapeva, lui.

Avesse potuto, l’avrebbe venduto ad altri e ne avrebbe raccattato almeno il triplo e allora sì che avrebbe potuto aprire un emporio, come voleva l’Ankica, magari a Borgo San Giacomo, dove qualche anima in più la si vedeva.

Ma il padre era stato chiaro nel testamento: “Si impossibilita un fratello a vendere la sua porzione di terreno a terze parti finché l’altro fratello è ancora in vita.” Perché il padre lo difendeva, ma non era stupido; temeva che la prima cosa che Giacomo avrebbe fatto sarebbe stata sbarazzarsi di una fonte di reddito sicura e bruciare il ricavato nel giro di qualche anno.

Ma a lui, di fare il contadino non gli andava. Arava, seminava, raccoglieva quel tanto che gli bastava a sbarcare il lunario. Sapeva che avrebbe potuto farlo rendere di più se solo ci avesse dato dentro, ma lui voleva anche godersi la vita. No, non era un mestiere per lui.

Un bell’emporio sì, però. Ci avrebbe lasciato l’Ankica a gestirlo, tanto quelle slave erano abituate a lavorare anche per i loro mariti. Con un vestito un po’ corto e scollato avrebbe attirato clienti meglio delle mosche sul miele; mica era geloso lui, finché la gente si limitava al guardare e non toccare.

 

Andrea, al contrario, si recava tutte le mattine al suo campo, percorrendo la strada che collegava il paese al fiume. Gli rodeva il fegato dovere attraversare prima il terreno di suo fratello e vedere che continuava a dare raccolti abbondanti, seppur quasi abbandonato a sé stesso.

Allora spesso attraversava il ponte costruito proprio dove in antichità vi era un porto-traghetto che collegava la riva bresciana a quella cremonese. Si sedeva sulla sponda di là e guardava, Albalonga crogiolarsi beata al sole, e guardava il suo campo, affacciarsi alle sponde dell’Oglio; quel corso d’acqua, dispensatore di molteplici opportunità, amico generoso per chi non lesinava fatica e sudore, era stato così avaro con lui!

Addirittura, nei secoli addietro alcuni avevano intravisto nelle sabbie chiare e luccicanti dei suoi greti, minuscoli bagliori che i raggi solari facevano riverberare tra le finissime rene. Non v’era stato dubbio; era oro. La febbre era salita, fino a scatenare una piccola corsa al metallo giallo, presto finita. Ed ora, a due secoli di distanza, nessuno se ne ricordava già più.

E lì gli venne l’idea; era quella giusta, ne era sicuro. Mancava solo la cassa di risonanza che ne divulgasse la notizia.

 

“Don Sergio, ha presente che il fiume fa quell’ansa, lì vicino al ponte, proprio al mio campo? Tenga la cosa riservata, ma ho trovato una bella quantità di pagliuzze d’oro tra le sabbie che si sono depositate li.”

Ecco il megafono, pensò Andrea; quell’ometto non si teneva per sé quello che la gente gli diceva in confessionale, figurati quello che gli raccontava al bar!

Due giorni prima era andato al ferramenta: “Una lima, per favore.”

“Per legno o per ferro?”

“Per metallo, grazie.”

“Fine?”

“Non troppo!”

Tornato a casa, aveva preso le tre monete d’oro che il nonno gli aveva lasciato e, con un poco di tristezza nel cuore, le aveva ridotte in polvere.

Poi era partito per il suo campo, e lì aveva scelto dove spargere i preziosi granelli, stando attento a non farseli portare via dalle acque.

Aveva studiato anche come fare per recuperarli. Si era fatto arrivare alla libreria di San Giacomo il “Trattato mineralogico” di Giambattista Brocchi, dato alle stampe nel 1807, che riportava in merito questa memoria: “Alcuni contadini di Albalunga, villaggio posto sulle rive dell’Oglio, si erano avvisati ne’ tempi trascorsi di mettere a profitto questa sorta di ricchezza. Il metodo di cui si valevano per separare dalle particelle pietrose i grani d’oro era semplicissimo. Esso consisteva nel fare scorrere il materiale aurifero, stemperato nell’acqua, sopra una tavola inclinata, su cui erano praticati di spazio in ispazio alcuni tagli obbliqui nel senso della sua larghezza. Le pagliette fermavansi in queste scannellature, mentre l’acqua trasportava le parti meno pesanti.”

 

Così quando quel giorno si avviò come tutte le mattine verso il campo, tenendo sotto braccio gli attrezzi necessari, i compaesani, con discrezione, si voltarono a guardarlo.

Raccoglieva l’acqua dal fiume con un catino e seguiva alla lettera le istruzioni del Brocchi. All’inizio niente; non era facile come sembrava. Temeva in cuor suo di non riuscire nell’impresa e diventare il breve lo zimbello del paese. L’Andrea, fingendo indifferenza, aveva notato che dall’altra parte del fiume, nascosti tra le fronde dei cespugli, molti occhi lo seguivano, di sottecchi, soppesando con attenzione ogni suo movimento.

Pian piano, qualche giorno dopo però, qualcosa apparve, o meglio sarebbe dire, riapparve da quelle sabbie dove le pagliuzze erano state messe ad arte.

… segue

 

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