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“Dove sono?”
Sagome, da prima sfocate, stavano prendendo, con estrema lentezza, a delinearsi in silenziose forme che la pupilla aveva difficoltà ad interpretare. Una luce, calda ma non accecante, salutó la fronte impregnata di sudore e riconobbi, oltrepassare il suono pesante, nato dagli spasmi del mio ventre affannato, ritmici versi di invisibili osservatori. Le cicale.
“Nonna, dove sono?”
“Oh, eccoti! Che paura mi hai fatto venire! Correre come una forsennata giù dal versante a quella maniera… Cosa ti è preso d’un tratto, eh? Non dovresti far sussultare così il cuore di una povera vecchia. No, non dovresti…”
“Mi brucia il ginocchio, nonna. Mi fa tanto male…”
“Oh, ma guarda. È tutto rosso e sbucciato. Vieni qui. No, non fare così, su. Non piangere.
Fratello Fiume lo laverà
Si, la ferita ripulirà.”
Un battito di ali gialle e nere fu preannunciato da numerosi cinquettii che sovrastarono, prepotentemente, i segreti sussurri delle cicale. Uno stormo di piccole macchie marroni, dalla testa rossa e bianca, si libró alto nell’aria, per poi abbassarsi, e volare deciso, verso un’orizzonte, incerto, dominato da una scura e fitta vegetazione.
Fratello fiume lo laverà
La ferita ripulirà.

Nel corso di quegli anni che componevano le pagine ingiallite dei miei ricordi, quella sequenza di eventi senza un senso, o scopo, che chiamiamo vita, avevo perduto le ore a sognare i variopinti colori delle farfalle nel luogo di pace e quiete che altro non era se non il vasto cortile della casa di nonna: un’immenso prato, di un verde irreale, quasi onirico, sperduto nella profonda gola di immensi versanti frastagliati che proiettavano, sul mio fragile corpo di bambina, le loro pesanti ombre. Nei mesi estivi, lo strato di nevischio, che sormontava, come buffi cappelli, le vette più alte, finiva per sciogliersi, quasi del tutto; mentre timidi corsi d’acqua, miseri fiumiciattoli, defluivano, timidamente, ma con decisione, nella valle dove, per attenuare la calura dei mesi più torridi, mi divertivo ad affidare i segreti delle mie puerili nudità ai silenziosi sussurri della natura, ad immergere le membra nel gelo delle limpide acque. In questo stato di assoluta quiete, durante la tranquillità della notte, il mio sguardo si divertiva a correre, a smarrisi, lungo il confine di invisibili bordi, che componevano il vasto cielo stellato. L’immaginazione amava sognare bizzarre sagome che si intravedevano, che facevano appena capolino, oltre l’unico confine fisico di quel mio mondo di meraviglie, dietro la pesante ombra di immensi abeti. Quando scendeva la notte, cullata dalla tranquillità del mio letto, spesso non riuscivo a concepire il riposo e ferma, immobile, con le palpebre chiuse, serrate, facendomi cullare dalla tranquillità delle tenebre, non riuscivo a fare a meno di tendere l’orecchio e di sentirmi violata da echi lontani. Potevo ascoltare, udire in lontanza, come un coro di voci pronunciare il mio nome, chiamarmi verso quel luogo proibito che, per la mia mente infantile, aveva acquisito la dimensione di reame incantato. Un luogo dove convivevano realtà e leggenda sotto le sembianze di creature ancestrali, dai corpi contorti, le cui pupille si erano immerse in tante di quelle verità che la mente, stanca e affaticata, oramai, ricordava con estrema difficoltà.Il mio desiderio di ignoto aveva, inaspettatamente, trovato appagamento soltanto il giorno prima, la sera in cui la nonna tornó dal paese portando, con sé, un pacco. Le mani tremavano mentre sfioravano la rivudia superficie del coperchio, rivelando un paio di piccole scarpette da ginnastica rosse.Sentivo il dolore, acuto e pungente, nascere lungo il tendine della caviglia e scendere, fino ad espandersi, sotto la pianta del piede. “Perché non vuoi darmi la mano? Non è il momento di fare la bambina disubbidiente. Le scarpe sono nuove. Adesso ti fanno male. Si, non guardarmi così. Ti fanno male. Ma una volta che ci avrai fatto l’abitudine potrai divertirti a correre con gli altri bambini, te lo assicuro. Attenta a non cadere. “.                                          Cosa era successo a quel Reame Incantato che, per lungo tempo, aveva accesso le mie fantasie di bambina?      Le gambe mi sostenevano a fatica. Tremavano. Più i miei passi si facevano largo nelle tenebre di quella vegetazione, più gli alberi si disfacevano in grottesche figure i cui fusti, rigurcitanti marciume, lasciavano fuoriuscire, da un corpo emaciato e secco, rami magri, smorti, le cui ultime foglie, dalle mille tonalità diverse, erano restie a cadere. Che genere di posto era quello?             La nonna mi aveva aspettato con pazienza quella mattina. Dovevo farmi bella, era il primo giorno di una cosa chiamata scuola e non potevo fare figuracce con gli altri bambini. No, non potevo…                                               “Cos’è la scuola?”.                                  “Un posto dove ti insegnaranno tutto ció che devi sapere. Ora sei abbastanza grande per andarci, a scuola come nel bosco.”.                                                        Mi rialzai a fatica. Adesso la voce di nonna mi arrivava lontana, distante. Quasi un’eco. Mentre io, rimasta miseramente indietro, cercavo di lottare contro l’inconsistenza del muschio scivoloso che ricopriva un sentiero sconnesso disseminato da un letto di pietre instabili. Tuttavia, la vegetazione si stava facendo più rada. Quelle dannate scarpe! Mi facevano male! “Resisti ancora un poco. Forza, siamo quasi arrivate.” Oltre quel mare di foglie e secchi arbusti finimmo per ritrovarci in un immenso prato incolto, al centro del quale, si stagliava un unico, grande, edificio. Una massa abnorme dalle ampie vetrate scure attraverso cui era assolutamente impossibile scorgere niente, se non fugaci ombre di passaggio, ma attorno al quale si stavano ammassando molte persone diverse. Impaurita da quella frenesia, di gente che parlava e rideva, i miei piedi arretrarono… Sentì un dolce tocco sfiorarmi il palmo della mano. La nonna mi sorrideva. Era quella la famosa scuola di cui tanto parlava? Quella che diceva…                                                     “Oh, signora. Che piacere vederla.” Dietro grandi occhiali tondi, che adornavano le tracce di una vistosa stempiatura, faceva capolino l’espressione distante e spaesata di un uomo che scoprì il mio sguardo insicuro e, fissandomi, sorrise, mentre la sua mano stringeva quella minuscola di una bambina che piangeva lacrime senza voce. “La mia Dafne oggi non fa altro che frignare. Si, non fa altro che frignare… È disperata perché ha smarrito il suo fermaglio. Era a forma di farfalla, sapete.” La nonna si piegó sulle ginocchia per arrivare alla stessa altezza della bambina. “Credo sia impossibile recuperare il tuo fermaglio, piccola Dafne. Ma, se fossi nei tuoi panni, non mi preoccuperei della cosa, sai? Sono sicura che tuo papà te ne troverà, molto presto, uno nuovo. Si, ne sono certa. Un nuovo fermaglio che renda ancora più splendidi i tuoi lunghi capelli corvini.” La bambina si stropicció gli occhi e smise di piangere.                 “Che magia è questa? Di solito servono ore per riuscire a farla calmare. Signora, invece il lavoro come procede?” Il padre di Dafne continuava a sorridermi.          “Ci sono stati alcuni importanti progressi. Il vecchio guardiacaccia stà velocizzando la produzione mentre altri uomini, da fuori, continuano ad arrivare. Molto presto saremo in grado di…”.          I noiosi discorsi da grandi non mi interessavano così presi Dafne per mano e, assieme, andammo a scoprire quelle che erano le fantasie di noi bambine. “Una volta ho visto una vanessa bellissima! Aveva delle ali di un viola così scuro che sembrava volare nel tessuto stesso della notte”. Dafne sorrideva mentre ascoltava le mie bugie. Stavo continuando a inventarmi storie per cercare di sorprenderla, di stupirla e meravigliarla. Lei questo lo sapeva. Lo aveva capito. Ma continuava lo stesso a farlo. A sorridere. Era una bambina pallida, dall’aria smorta e emaciata, ma dal sorriso sorprendentemente dolce e breve, come la primavera. Mi sentivo bene con lei ma presto mi resi conto che il rumore del chiacchiericcio stava iniziando a diminuire, sempre più, fino ad arrivare al punto di tacere, quasi del tutto. I grandi se ne stavano andando lasciando noi, i bambini, da soli. Soli in mezzo a quell’immenso prato con solo lo sguardo del cielo ad accudirci. Seppur cercassi di non darlo a vedere, dentro di me, sentivo nascere una grande ansia. Un forte senso di inquietudine, come se avessi la certezza, il presentimento, che qualcosa di brutto stesse per accadere, un qualcosa che si sarebbe abbattuto, presto, su di me. Un corvo famelico pronto a cavarmi gli occhi dalle orbite e che avrebbe banchettato con le mie viscere e brindato con il mio sangue. Che avrebbe…

Uno sgraziato cigolio ci avvertì che le immense porte di quella mostruosa struttura si stavano spalancando. Fu uno spettacolo strano, qualcosa di grottesco… Dall’edificio iniziarono ad uscire diverse donne con indosso degli abiti scuri. Non ero in grado di riuscire a capire cosa stesse succedendo. Mi sforzai di tranquillizzarmi, di continuare a parlare con Dafne ma la mia mente era, in realtà, fissa su di lei e… No, non era vero! Non era fissa su di lei! Ma sui suoi occhi scuri che, come pozzi senza fine, continuavano a scavarmi nelle ossa, seppur con estrema dolcezza, e a comunicare, direttamente al mio animo, un profondo senso di pace. Di tranquillità. Come se quello sguardo fosse…
“Vieni piccola. Ti faccio vedere un posto dove imparerai tante cose.”
Una giovane donna aveva afferrato la mano di Dafne e la stava accompagnando dentro l’edificio. La mia flebile calma era adesso stata spazzata via. Cancellata. Finché non rimase niente. Nulla di me. Mi alzai rapidamente e, senza prestare più la minima attenzione, badare a cosa stesse succedendo, decisi che mi sarei dovuta allontanare dal resto del gruppo, prima che quelle donne, quelle streghe, quei mostri, decidessero di rapirmi, di portare via anche me. Iniziai a correre. Corsi come non avevo mai fatto nella mia vita, sentivo il cuore, come un tamburo, martellarmi le ossa e scandire gli attimi di quella che, con tutta probabilità, avevo immaginato dovesse essere la mia fine. Avevo già partorito un sogno simile? Mi vergonai di me stessa. Avevo abbandonato la mia amica, la mia Dafne, al suo incerto destino mentre io, da vigliacca, stavo scappando. L’avevo lasciata là, in quella scuola. In quella sorta di istituto. Cercai di fare lo sforzo di calmarmi, di ritornare sui miei passi, per ritrovare il percorso, la strada del Bosco che avevo percorso quella mattina. Più i miei pssi si addentravano nelle tenebre della boscaglia finì oer acquisirela tetra consapevolezza di aver intravisto ombre e sagome, tanti uomini neri, fissarmi, immobili, nascosti nell’ombra celata dai tronchi. Di cosa potesse trattarsi, non ne avevo idea, né volevo provare a immaginare. Ma, non avendo scelta, trovai così, al cospetto delle fronde di quei disgustosi alberi che, solo quella mattina, mi avevano terrorizzato alla follia, un guado sicuro dove nascondermi, l’unica strada per attraversare, non vista, quel fiume di vegetazione privo di qualsiasi senso o di una, seppur vacua, logica razionale. Sarei riuscita a raggiungere la casa di nonna? Almeno questa volta? Tentai di scappare più velocemente i miei piedi, gonfi e doloranti, me lo avrebbero reso possibile. Non mi fermai, mai, né osai girare la testa per guardarmi indietro. Avevo paura… Si, avevo una paura folle di scorgere, tra le fronde, i grotteschi lineamenti degli adulti, deformati dall’ira in disumane maschere di odio, chiamare il mio nome. Ma mentre mi immergevo nella fitta massa di rami e sterpaglie, diventai sempre più conscia della terribile verità. Nella mia attuale situazione non sarei mai, da sola, riuscita a ritrovare la strada per tornare a casa. No, non ne sarei stata capace… Mi sarei smarrita, il mio corpo sarebbe stato perduto, dimenticato, per sempre, lì, nel Bosco, come una delle tante bambine di quei racconti magici che da piccola amavo ascoltare prima di addormentarmi… Sentì le guance inumidirsi. Il mio cadavere sarebbe stato perduto, dimenticato e custodito dagli alberi. Per sempre… Scesero lacrime di odio verso me stessa. Io, che ero solo una stupida, che non ero in grado di… Singhiozzando alzai la testa, aprì le braccia che mi cingevano le ginocchia facendomi sentire protetta, al sicuro. Senza che ne avessi, inizialmemte, consapevolezza, quasi stessi vivendo, o forse partorendo, un sogno, iniziai, ad udire una sorta di rantolo, come un sussuro. In principio era solo quello, un eco distante, difficilmente definibile come suono, ma che, molto presto, divenne una voce forte, calda e decisa che mi sussurrava dolci parole capaci di accarezzarmi l’animo. Mi asciugai gli occhi con la manica della giacca e tirai su con il naso. Avevo riconosciuto, in quei versi privi di sonorità, la stessa voce che, come un coro, mi aveva tenuto sveglia, molte altre volte, alle porte dell’abisso della notte, desiderando che la raggiungessi là, nel Bosco ammantato dal chiarore di una luna senza nome.
“Chi c’è?” Avevo il cuore colmo di paura e l’animo che implorava solo una cosa. Pietà.

In lontanzanza riuscì a scorgere la sagama conosciuta che altro non era se non la casa di nonna. Presi a tranquillizzarmi, a riordinare la mente e i pensieri. Era stata una lunga giornata e le pennellate della sera cominciavano a sfumarsi nell’orizzonte. Mentre annaspavo e tossivo, cercando di riprendere fiato, mi accorsi di avere gli abiti sporchi, interamente ricoperti da macchie marroni. Il piede destro aveva preso a bruciarmi, terribilmente. Abbassai lo sguardo e notai che avevo smarrito una delle scarpette e dal mio piede si potevano intravedere chiazze rosse espandersi attraverso la vacua trasparenza della calza. Mi voltai. Si era alzato un forte vento e le foglie, accarezzate da quella selvaggia irruenza, stavano danzando le loro insane movenze. Nella mia mente si era insinuato il sospetto che, da quelle parti, dovesse vivere una bizzarra creatura che perdeva le ore a rubare gli oggetti che i bambini credevano di aver smarrito, perduto tra le fronde del Bosco. Si, lo sapevo. Nel Reame Incantato, oltre il marciume dei tronchi, al di là del muschio che ricopriva il pietrume, avevo la consapevolezza, o forse qualcosa di più, un amaro presentimento, che strane dita, appendici inumane, stessero accarezzando i tesori perduti, gli oggetti smarriti dai bambini, il fermaglio di Dafne e la mia scarpetta rossa. Ne ero certa.

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Cla010
About

Sono un ragazzo di 24 anni, laureato in scienze politiche all'università di firenze, adoro leggere e scrivere ma sopratutto spaventare le persone con i miei racconti

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7 Comments


  1. Non lo definirei un racconto horror ma delle criptiche elucubrazioni di una bambina piena di paure e fantasie. Senza alcuni piccoli errori grammaticali sarebbe una piacevole lettura. Aspettiamo il sequel.

  2. Elena
    Elena

    La dinamicità di questo racconto è in grado di catturare l’attenzione di chi legge. Trovo lo stile piuttosto complesso, ma credo che contribuisca alla grande nel creare un’atmosfera inquietante, ma allo stesso tempo adrenalinica. Non posso non notare, però, da fanatica della grammatica quale sono, qualche errorino che infastidisce leggermente nella lettura, come i verbi al remoto in prima persona con la i accentata e non la doppia i. Ma questo è del tutto risolvibile. Poi, ovviamente, io non sono nessuno sia chiaro. I miei sono solo consigli 🙂 Spero continuerai la storia!