Non sono certa che ripensare agli eventi che hanno portato alla condizione miserabile del mio presente possa portare una qualche forma di giovamento alla mia mente infestata. Tutt’altro. Piuttosto, ciò che mi spinge a voler affidare a queste pagine gli accadimenti di quei giorni nefasti è la convinzione che, un giorno lontano da oggi, queste parole nere d’inchiostro possano ricordarmi che quanto ho visto, quanto ho vissuto, non sia stato solo il frutto della mente di una squilibrata.
Tutto era precipitato con la morte di mia madre. Negli ultimi anni, dopo la scoperta della malattia, eravamo rimaste io e lei, a consumarci nell’agonia della degenerazione del suo corpo. L’avevo guardata, impotente, perdere l’uso delle gambe, poi delle braccia, infine della voce. Avevo dovuto imparare a leggere i suoi occhi, che sembravano essere rimasti l’unica cosa viva in quel sarcofago di muscoli irrigiditi. Le uniche finestre dalle quali la sua volontà ancora intatta poteva affacciarsi.
Non si spostava più dal letto da ormai due anni, e quando finalmente quella notte spirò, non nascondo che la mia prima sensazione fu di estremo sollievo, come avessi finalmente liberato un sospiro trattenuto fin troppo a lungo. Mia madre se n’era andata in silenzio, e neppure me ne sarei accorta non fosse stato per il ronzio statico dei macchinari, che fino ad allora l’avevano tenuta agganciata a quella parvenza di vita. Ricordo che mi abbandonai sul suo corpo e piansi sommessamente per tutta la notte, percependo la sua pelle farsi fredda e arida come la sabbia del deserto quando cala il sole.
Ma al sollievo succedette ben presto la solitudine, accompagnata da una scomoda irrequietezza che mi rubava il sonno di notte e la produttività di giorno. Avevo lasciato il mio ultimo lavoro con l’aggravarsi delle condizioni di mia madre, e da quel momento la nostra unica entrata era stata la pensione che lei percepiva a causa della sua invalidità. Per tutti quegli anni avevo frequentato il mondo esterno solo per le commissioni di prima necessità e per colloquiare con l’asettica schiera di sanitari che si occupavano di studiare l’evolversi della malattia.
E adesso che tutto era finito mi sembrava che la mia esistenza avesse smarrito ogni scopo, come fossi nient’altro ormai che una scoria d’umanità.
Fu per questa serie di motivi che decisi di rispondere a quell’annuncio.
A onor del vero, leggerlo fu per me una folgorazione. Sentivo il mio cuore palpitare, la mia pelle riscaldarsi, farsi scivolosa.
Cercasi badante notturna disponibile da subito
Recitava il titolo. Poi continuava:
per donna ultranovantenne allettata e non autosufficiente. Offresi stipendio a norma di legge, più vitto e alloggio.
Orario di lavoro 20-8, fine settimana compresi. Si richiede esperienza pregressa.
Seguivano, in chiusura, i contatti per proporre la propria candidatura.
Era forse prematuro trarre conclusioni da quel breve trafiletto, ma la causa della mia eccitazione era il pensiero di quanto le condizioni descritte fossero simili a quelle in cui versava la mia amata madre nella sua fase terminale. Ma soprattutto, come la mia psiche annebbiata mi esortava a credere, era forse un’occasione che la vita mi stava offrendo per porre rimedio alle mie passate mancanze.
Ben presto fissai un appuntamento e mi recai all’indirizzo indicatomi al telefono dalla figlia della malata.
L’abitazione era un’antica villa a un paio di chilometri dall’ingresso della città. I battenti del grosso cancello erano aperti, così guidai la macchina all’interno e la parcheggiai nello spiazzo ghiaioso antistante la magione. La sua vista era ributtante. Aveva tutta l’aria di una casa abbandonata: le imposte, dove ancora resistevano, erano cadenti e scrostate, le mura di pietra erano invase da piante rampicanti, grossi ciuffi d’erba spuntavano dagli interstizi delle mattonelle delle scale. Era scura, compatta, e pareva che ogni singolo mattone fosse stato posizionato secondo un preciso disegno di una mente maligna, perversa. Il silenzio era tombale, come se ogni forma di vita rifuggesse volontariamente quel luogo. Per un attimo ebbi la tentazione di fuggire anch’io. Poi la vidi.
-Benvenuta. Venga pure dentro- una donna che doveva avere circa la mia età, dritta e magra come un chiodo, mi fissava dalla cima della scalinata sghemba. Nonostante le parole con cui mi aveva accolta, il suo sguardo mi lasciò addosso un’appiccicosa sensazione di disagio. In qualche modo mi sembrava di conoscerla, ed ero sicura che lei avesse avuto la stessa impressione.
-Salve- risposi, sforzandomi di sorridere. Percorsi i gradini a passi regolari; quando raggiunsi la donna sollevai lo sguardo e tesi un braccio.
-Luigia Cecchi, molto lieta- fece la donna stringendomi la mano. Da lontano non avevo potuto notarlo, ma adesso che stavamo una di fronte all’altra mi avvidi con stupore di quanto fossimo somiglianti; la stessa pelle pallida, gli stessi occhi scuri segnati da rughe profonde, gli stessi capelli lisci, striati di bianco e acconciati in una crocchia all’altezza della nuca.
La donna mi fece strada all’interno, poi richiuse il portone alle nostre spalle. L’eco del tonfo che riverberò nell’enorme atrio d’ingresso mi diede i brividi.
L’interno di quell’abitazione manteneva le promesse di quello che si vedeva da fuori: l’ambiente era oscuro, decadente, i mobili vecchi e mangiati dalle tarme, il pavimento polveroso e le porte graffiate o, peggio, scardinate. Pareva che nessuno avesse più realmente cura di quella casa da anni. La seguii fino a un ampio salone in penombra, poi mi fece segno di accomodarmi su un divano; mi sentii sprofondare nella spugna consunta del cuscino.
-Mi diceva che ha già esperienza di… questo tipo di assistenza-
-Sì. Mia madre- risposi, mentre anche lei prendeva posto su una poltroncina -l’ho accudita per tanti anni. È venuta a mancare il mese scorso-
-Ne sono addolorata- disse, e non dubitai per un istante della sincerità della sua tristezza.
Andammo avanti a parlare a lungo, e lei mi raccontò di come, dopo la morte di suo padre, sua madre fosse lentamente scivolata in una malinconia silenziosa, che aveva spento in lei, come vento freddo su fiamme di candele, qualsiasi interesse per la vita. Tanto che, quando la malattia aveva abbracciato il suo corpo, lo spirito era già in attesa da anni. Morto. Rimanemmo entrambe colpite dalle tante analogie presenti nelle nostre storie, e sviluppammo subito un’affinità singolare. Avevo trovato finalmente qualcuno che sembrava conoscere la profondità del mio dolore e della mia solitudine.
-Il suo compito, seppur all’apparenza semplice, è molto delicato- mi disse verso la fine -come le dicevo mia madre non si alza più dal letto ed è alimentata per via endovenosa. Durante il giorno è assistita da un’infermiera che si occupa di tutte le questioni mediche. Perciò non deve preoccuparsi di questo- si spostò in avanti sulla poltroncina, fin sul bordo, poi abbassò la voce:
-deve solo accudirla nel caso dovesse agitarsi, assicurarsi che durante la notte non le accada niente di… spiacevole- abbassò lo sguardo, a disagio -per questo è importante che rimanga sempre vigile. Le fornirò una lista di numeri da contattare in caso di emergenza-
-La capisco perfettamente, signora Cecchi. So bene di cosa parla-
-Lo so- replicò lei, sorridendo.
Infine soddisfatta, ci tenne a portarmi di sopra, per mostrarmi la stanza che avrei potuto utilizzare per passare le notti, adiacente a quella dove riposava l’ammalata. Seppur trascurata e logora come ogni altro ambiente della casa, fui colpita dalla sua spaziosità. Ospitava un grande letto dalla pesante testiera in legno intagliato, un mobilio scuro e ingombrante, un grosso specchio macchiato di ruggine appeso alla parete. C’era anche un’ampia finestra, che dava sui campi incolti della tenuta.
Infine, mi portò a conoscere la donna che avrei dovuto assistere.
Se c’è una cosa della quale sono sicura non potrò mai liberarmi, è il ricordo di quell’odore, che ancora oggi mi dà il panico ogni volta che ho l’impressione di sentire. Non era cattivo, piuttosto era… posticcio. Era un odore buono, come di menta appena colta; eppure, c’era qualcosa di stonato che non riuscivo bene ad afferrare e che mi lasciava turbata. Un fetore di morte che si nascondeva sotto quella falsa promessa di purezza.
E poi c’era lei, stesa immobile al di sotto di una montagna di coperte, con solo un braccio giallo, magrissimo, che spuntava fuori.
-Ciao mamma. Lei è Giulia, si occuperà di te quando non ci sono-
Mi sforzai di sorridere, ma sul volto scavato di quella donna non apparve nessuna reazione, nessuna evidenza che dimostrasse si fosse accorta della mia presenza. Capii in quel momento di essermi ingannata. La vecchia non aveva niente di mia madre, a cominciare dagli occhi: questi erano fissi, come scolpiti nella pietra. Finestre sbarrate di una casa abbandonata.
-Come le dicevo, è completamente paralizzata- mi sussurrò all’orecchio, e mi chiesi se ce ne fosse davvero bisogno -ma è lì, ci vede. E ci sente- il suo viso si aprì per la prima volta in un sorriso assente, che le scoprì i denti sottili.
-Sono sicura che andrete d’accordo. Non è vero, mamma?- alzò la voce, ma anche questa volta si udì solo il respiro affannoso della donna. Quel modo un po’ bambinesco col quale le si rivolse mi strappò un brivido; mi sembrò, infatti, di rivedere me stessa.
-Ne sono certa anche io- replicai, soltanto per compiacerla e chiudere al più presto quella visita.
-Bene- rispose lei, continuando a guardare dritto negli occhi vuoti di sua madre.
Gli accordi erano che avrei cominciato subito, così l’indomani tornai alla villa all’orario prestabilito. Avevo trascorso tutta la giornata in preda a una strana agitazione, che associai alla trepidazione che assale quando si è alle soglie di qualcosa di nuovo e ignoto, un salto per il quale non ci si sente ancora pronti.
Quando arrivai Luigia Cecchi era già andata via: trovai un bigliettino affisso al portone nel quale si scusava di non aver potuto attendere il mio arrivo a causa di un imprevisto che l’aveva costretta ad allontanarsi dalla villa anzitempo.
Entrai quindi in casa e chiusi a chiave il portone come la signora Cecchi mi aveva raccomandato.
Tutto taceva. Ero tuttavia abituata a quel silenzio, che aveva riempito le mie giornate per sette interminabili anni. Così fu per me come rincontrare un vecchio amico di ritorno da un viaggio.
Mi avviai subito verso la stanza della signora, fermandomi solo una volta davanti alla porta. Dall’interno non proveniva alcun suono, tuttavia mi sembrava di poter già percepire quell’odore nauseante. Quando finalmente aprii ne fui avvolta, e ricacciai un conato giù per la gola.
Alla luce fioca della lampada da comò, mi trovai di fronte allo sguardo sbarrato di quella donna di cera, che mi fissava dritta in volto da quegli occhi che, forse precocemente, avevo giudicato come privi di coscienza.
Quella prima notte trascorse senza eventi degni di nota.
Fu infatti solo dalla successiva che i segni della presenza inquietante che infestava la casa si fecero più tangibili.
Ero nella camera che mi era stata assegnata, impegnata nella lettura di un libro di cui non ricordo più nulla. Il silenzio era assoluto, tanto che potevo sentire lo stormire delle fronde nel vento leggero.
Un pianto lacerante, disperato e vicinissimo riempì d’improvviso l’aria immobile.
Senza avere il tempo di riflettere, abbandonai tutto e corsi nella stanza di fianco, dalla quale ero sicura provenisse. Accesi la luce in preda al panico.
-Cosa succede?- gli occhi della donna erano sbarrati come sempre. Ebbi la precisa impressione che il suo sguardo di ghiaccio si muovesse verso di me, accusatorio.
Tutto era in ordine, le finestre erano serrate, e nella stanza c’eravamo solo noi due. Solo in quel momento mi venne in mente che potevamo non essere davvero sole in quella casa. Non poteva essere stata lei a produrre quell’urlo, né tantomeno poteva essere stato un inganno della mia mente. Tremai d’orrore.
Lasciai la stanza, con l’intenzione di perlustrare la casa.
Accesi ogni lampada ed entrai in ogni stanza, brandendo tra le mani un attizzatoio di ferro che avevo trovato nei pressi del grande camino. Controllai che la porta d’ingresso e ogni altra apertura verso l’esterno fossero ben sigillate e, infine, giunsi alla conclusione che nessun estraneo si fosse introdotto in casa quella notte. Sollevata solo in parte, me ne tornai di sopra. Passando davanti alla camera della signora Cecchi, assecondai l’impulso di entrare, per controllare che stesse bene. Era sveglia, e i suoi occhi enormi mi seguirono mentre mi avvicinavo lentamente al suo letto. Sentivo, dal respiro particolarmente corto e affannato, che fosse in preda a uno stato d’agitazione. Le presi la mano tra le mie, e fu come sollevare un mucchio di rametti secchi d’inverno.
-Va tutto bene, signora Cecchi- le sussurrai -non c’è niente di cui preoccuparsi-
Scoprii invece, a mie spese, di sbagliarmi tremendamente.
Quando tornai la sera successiva, alle venti in punto, ancora una volta trovai un biglietto di Luigia Cecchi che mi chiedeva di scusarla per non aver atteso il mio arrivo. Non nego che la cosa cominciava a indispormi, tuttavia non avevo motivo di dubitare della buona fede di quella donna.
Nonostante avessi tentato di distogliere la mia mente da quanto accaduto, ero diventata più guardinga, e controllavo ossessivamente di aver chiuso con tripla mandata il portone d’ingresso. Dopo una breve visita alla signora mi ritirai nella mia stanza.
Quella mattina avevo riposato poco e male, e fu forse per questo che mi addormentai. Non seppi mai, comunque, per quanto a lungo. Fui risvegliata da un ticchettio; era un suono secco, continuo, sincopato. In un primo istante, ancora confusa, mi convinsi che venisse da fuori; poteva essere, magari, lo sbattere di qualche ramo sotto l’effetto del vento. Mi resi conto poi che invece quel suono proveniva da dentro, dal corridoio oltre la porta. Mi feci dappresso. Sembrava un suono di passi, passi incerti che facevano su e giù. E, insieme a quel rumore, ne distinsi ben presto un altro. Una voce sottile e stanca che cantilenava il motivetto di una ninnananna. Sentii lacrime calde colarmi giù per le guance.
-Mamma…- quella canzone che sentivo distintamente compariva nei primi ricordi della mia esistenza, insieme al volto amorevole di mia madre.
Aprii la porta e mi guardai intorno nel buio.
-Chi c’è?-
La voce scomparve come non fosse mai esistita e il silenzio tornò a essere la coperta di pietra che ammantava le notti di quel luogo. Non c’era nessuno, e nessuno c’era mai stato.
Rientrai dentro tremando e chiusi la porta a chiave.
Non passò molto tempo prima che tornassi a sentire quei passi nel corridoio. La voce era ancora più flebile, e questa volta mi diede i brividi. La sentivo sussurrare.
Poi, lentamente, la maniglia si abbassò.
Mi rannicchiai sul pavimento in fondo alla stanza, colta da un panico che mi tagliava il respiro. La maniglia tornò a piegarsi, cigolando.
-Chi va là? Andate via, prima che chiami la polizia!-
La voce tacque, e credetti per un istante di aver messo in fuga l’intruso. Poi venne un suono gutturale, basso. Una risata malata.
–Giuliaaa– mi chiamava. Chiunque fosse dall’altra parte conosceva il mio nome –riportami indietro–
-Signora Cecchi… è lei? Mi sta spaventando- l’ipotesi mi sembrava assurda, ma Luigia Cecchi era l’unica a conoscere il mio nome. Che fosse rimasta in casa per tirarmi quello scherzo perverso? Sentii infine i passi allontanarsi ed entrare nella stanza di fianco, lì dove riposava la signora.
Mi sollevai di scatto, feci scattare la serratura e mi precipitai lì dentro. Accesi la luce e dovetti mettermi una mano davanti alla bocca per non urlare. Nella stanza non c’era nessun altro, se non l’anziana signora Cecchi distesa sul letto. Mi guardava, e aveva uno strano ghigno disegnato sul volto.
Quando finalmente quella notte giunse al termine, corsi via dalla casa senza neanche attendere l’arrivo della Cecchi, cosa che andava contro ogni mio principio.
Quel giorno non riposai, tormentata dalle deduzioni irragionevoli e agghiaccianti con le quali la mia mente tentava di spiegare quanto occorso.
Non tornai più per due giorni, troppo terrorizzata da quegli accadimenti. Tuttavia, la signora Cecchi mai tentò di contattarmi per conoscere il perché della mia diserzione, e arrivai a domandarmi se se ne fosse anche solo avveduta.
La mia situazione non migliorò. Dormii, se così si può dire, solo una manciata di ore funestate da incubi terribili. In tutti sentivo i passi della vecchia paralizzata che si trascinavano per il corridoio. Sentivo il suo respiro flebile e affannoso stazionare dall’altra parte della porta della mia stanza. E poi sentivo il cigolio doloroso della maniglia che si abbassava mentre io, rannicchiata nell’angolo più lontano, singhiozzavo per il terrore. Infine la porta si apriva strisciando sul pavimento, sempre di più, sempre di più, sempre di più.
–Svegliati, Giulia. Torna indietro– mi diceva la vecchia, mentre vedevo lo scintillio dei suoi occhi ciechi avanzare nel buio -vieni a prendermi, Giulietta mia–
A quel punto era così vicina che neppure quell’insopportabile profumo di menta fresca poteva coprire il puzzo di morte ancor peggiore del suo corpo. Urlavo, e solo allora mi era concesso di riemergere dalla fossa di quell’abisso d’orrore.
Mi convinsi infine che l’unico modo per esorcizzare l’inquietudine del mio stato d’animo fosse accettare l’invito del mio incubo.
Alle otto in punto di quella sera ero lì, decisa a fare i conti con qualsiasi cosa infestasse quella villa cadente. Alla luce fioca dello spicchio di luna che si affacciava dal cielo, la casa mai mi era parsa così tetra, minacciosa.
Non vedendo nessuno al di fuori di me, entrai, salii le scale e mi diressi nella mia stanza. Chiusi la porta, stavolta senza dare alcuna mandata al chiavistello.
Presi una sedia sgangherata e la posizionai al centro della stanza; estrassi dalla borsa un lungo coltello, la cui lama mandò bagliori bluastri alla flebile luce lunare. Mi sedetti così da rivolgere lo sguardo verso la soglia chiusa. Attesi, nel buio, per un tempo che mi parve interminabile.
E alla fine la sentii.
Gli stessi passi stentati, lo stesso mormorio folle. Lo stesso respiro malato dall’altra parte della porta. Lo stesso odore di menta fresca che si insinuava tra gli interstizi e mi entrava nel naso in mille lame sottilissime.
Lo stesso scricchiolio della vecchia maniglia che si abbassava. Il medesimo lamento del legno della porta che si trascinava sul pavimento polveroso. E infine scorsi la sua sagoma storta, decrepita come e buia come le pareti della casa che abitava, stagliarsi immobile all’ingresso; vidi i suoi occhi enormi, morti e sempre vigili scintillare come stelle lontane; sentii i mille scricchiolii delle sue ossa mentre muoveva un passo verso di me.
–Giuliaaa- sussurrò –torniamo a casa, ti prego–
-Muori, vecchia maledetta!- mi alzai di scatto con il lungo coltello levato, e quando fui abbastanza vicina trafissi il suo corpo una, due, cento volte forse, fin quando non udii il tonfo delle sue membra che si abbattevano al suolo. Finalmente morta.
Forse caddi addormentata, oppure la mia mente non poté sopportare oltre la follia di quella notte. Ciò che so è che quando mi risvegliai scoprii con raccapriccio che sul pavimento non giaceva il corpo della vecchia signora Cecchi, bensì quello di un uomo in divisa inzuppato di sangue.
La polizia mi trovò rintanata in un angolo, lo sguardo fisso sul cadavere di quello sconosciuto, il coltello ancora stretto nel pugno.
-Dov’è la signora Cecchi? La padrona di casa- ricordo di aver chiesto.
-Questa casa è abbandonata da anni, signora. Non c’è nessun padrone- mi rispose qualcuno.
Nella camera della signora Cecchi, disteso su un materasso lurido, trovarono il corpo di mia madre, e continuano a dire che sia stata io a portarcelo (pazzia il solo pensiero). Io, per mio conto, persisto nel chiedere a chiunque che fine abbiano fatto Luigia Cecchi e sua madre, ma fino ad oggi nessuno sembra in grado di darmi una risposta. Eppure sono certa che siano state loro a uccidere quel poliziotto che mi aveva vista entrare in casa, non io. Mi hanno incastrato, e ora sembrano entrambe scomparse, perse nel vuoto. Come se non fossero mai esistite.
Eppure, certe notti, ancora mi sembra di sentire quel profumo di menta infilarsi sotto l’uscio della mia cella, e il passo gravoso della vecchia signora Cecchi trascinarsi per il corridoio. Io so che è ancora lì fuori, e che mi sta aspettando. Continua a chiamarmi, e aspetta.
Giusto dall’altra parte della porta.
Bello a rileggerti buon pomeriggio.
L’effetto più difficile da ottenere, far immedesimare il lettore, è di gran lunga il tuo “pezzo forte”; meno la trama, che alla fine si è rivelata inconsistente, priva di concretizzazione. Una fine sciapa, senza quel colpo di scena che, incastonato nel racconto, lo avrebbe esaltato. La critica è dovuta al fatto che le tue potenzialità indubbiamente sono alte.
Ti ringrazio per il commento e anche per la “critica”, che apprezzo. Sì, probabilmente il finale può essere migliorato, ci proverò. Grazie per la lettura e il feedback. Per me il confronto è importante. A presto